Mary Ann Domingo e il figlio minore con i ritratti delle vittime, Luis Bonifacio (marito di lei), 45 anni, e Gabriel Bonifacio (figlio), 19 anni. (Ted Aljibe, Afp)

Il 18 giugno un tribunale di Manila ha riconosciuto quattro poliziotti colpevoli di aver compiuto omicidi extragiudiziali nel 2016 nell’ambito della sanguinosa guerra alla droga promossa dall’ex presidente Rodrigo Duterte.

I quattro poliziotti sono stati condannati a pene fino a dieci anni di prigione per aver ucciso un uomo e suo figlio nel corso di un’operazione antidroga nella capitale.

Secondo l’accusa, Luis Bonifacio, 45 anni, e il figlio Gabriel, 19 anni, non avevano legami con il traffico di droga e non erano armati quando sono stati colpiti durante l’operazione, in cui erano coinvolti più di dieci poliziotti.

Secondo la difesa, i poliziotti avevano aperto il fuoco per difendersi.

Migliaia di persone sono morte nella guerra alla droga lanciata da Duterte nel 2016. Secondo la Corte penale internazionale (Cpi), che sta conducendo un’inchiesta, potrebbero essere stati commessi crimini contro l’umanità.

Il 15 aprile l’attuale presidente Ferdinand Marcos Jr. ha però escluso la possibilità di consegnare il suo predecessore alla Cpi.

Le Filippine hanno lasciato il tribunale delle Nazioni Unite nel 2019 dopo l’apertura di un’indagine preliminare sulle violazioni dei diritti umani commesse durante la guerra alla droga.

Nel giugno 2020 le Nazioni Unite hanno accusato in un rapporto il governo di aver incoraggiato la polizia a uccidere i sospetti trafficanti di droga senza alcuna forma di processo.

Paura di rappresaglie

Secondo i dati ufficiali del governo filippino, più di seimila persone sono state uccise durante le operazioni antidroga. Secondo le stime della Cpi, le vittime sono invece tra le dodicimila e le trentamila.

Prima di questa sentenza, solo cinque poliziotti erano stati condannati per il loro ruolo nelle esecuzioni extragiudiziali.

Secondo alcuni avvocati, la maggior parte dei familiari delle vittime non intraprende azioni legali per mancanza di risorse e, soprattutto, per paura di rappresaglie.