Antonio Moresco a Mantova, nel 2005. (Alberto Cristofari, A3/Contrasto)

È da poco uscito Gli increati, terzo volume della trilogia L’increato di Antonio Moresco. È a sua volta diviso in tre parti, come gli altri due romanzi che la compongono: Gli esordi e Canti del caos.

Ancor prima del suo arrivo in libreria, Gli increati ha suscitato un acceso dibattito che, come succede spesso a proposito di Antonio Moresco, è apparso fin da subito molto polarizzato: con gli estremi dell’ossessione derisoria da una parte e dell’ossessione beatificante dall’altra.

Provo qui invece a fornire alcune coordinate di massima per orientarsi nella trilogia in questione, o quantomeno per sapere che cosa c’è dentro, senza voler lasciar intendere che la portata e l’impianto complesso di quest’opera siano realmente intuibili sulla base dei suoi pochi eventi e personaggi che accennerò.

Senza riferimenti né alla biografia né alla storia editoriale di Antonio Moresco, né con un vero tentativo di approfondimento critico, si tratta di una sintetica guida alla lettura del perno centrale di tutta la sua produzione, L’increato. È una carta per un territorio grande più di tremila pagine, una mappa di quelle che mostrano le strade più grandi, ma non quelle più piccole, che pure di un’opera letteraria sono spesso le più interessanti e pulsanti.

Quando un testo si prefigge un obiettivo di servizio di questo genere, c’è il rischio d’interferire con il gusto della scoperta autonoma della trama (parlare di spoiler è riduttivo, o forse questo articolo è un unico grande spoiler). Ma per i tre libri di L’increato è quantomeno problematico parlare di “trama” in senso stretto, anche se la spinta del racconto non manca di certo. In ogni caso: avvertiti.

Gli esordi

Gli esordi (uscito per Feltrinelli nel 1998, poi ripubblicato da Mondadori nel 2011) è composto da tre parti intitolate Scena del silenzio, Scena della storia e Scena della festa. L’incipit: “Io invece mi trovavo a mio agio in quel silenzio”.

I-Scena del silenzio

Primi anni sessanta. Un ragazzo entra in seminario, e ci entra facendo un voto di silenzio di cui sembra non accorgersi nessuno. La narrazione è in prima persona, e questa prima parte è fatta principalmente di descrizioni di quello che il protagonista osserva, assorto, attorno a sé.

Una figura fin da subito centrale è quella del Gatto, il prefetto maggiore del seminario. È un personaggio a cui conviene prestare attenzione, perché avrà un ruolo chiave in tutta la trilogia.

A un certo punto, il protagonista viene portato nella villa dei suoi parenti a Ducale, e lì prende avvio una serie di episodi dai quali emerge il tratto fondamentale dello sguardo del protagonista: ai suoi occhi, qualsiasi elemento della quotidianità può far da scintilla scatenante per vicende in cui il dato realistico di partenza passa attraverso una distillazione e fermentazione visionaria. È una caratteristica che riguarda tutta la trilogia e che sfuggirà presto – e programmaticamente – di mano.

Entrano uno dopo l’altro in scena personaggi che rendono la villa di Ducale una sorta di circo grottesco. C’è per esempio la Pesca, una figura dalla peculiare sensualità che sarà centrale per tutta la trilogia.

Dopo la scena di un grande incendio rituale della massa d’immondizia della villa, il protagonista viene riaccompagnato in seminario. Il Gatto, ormai ordinato sacerdote, non è più lì. Il voto di silenzio continua, ma viene rotto dalla risposta che chiude questa parte e che il protagonista dà al priore quando gli chiede se è certo di aver sentito la chiamata al sacerdozio: “Sì, padre”.

A leggere questa prima parte, il lettore comune non capisce se si trova di fronte a uno sguardo ingenuo (quasi autistico) o se Moresco ha già fatto la scelta di rinunciare a una fedeltà a un reale a cui non crede. Ma si sente già che a tremare sia proprio quella divisione fra reale e irreale. Insomma, dove vuol andare a parare Moresco?

II-Scena della storia

La voce narrante è la stessa della Scena del silenzio, ma ora il seminarista, disattendendo evidentemente il “sì” che concludeva la parte precedente, si è trasformato in militante di un’organizzazione di estrema sinistra. Lo vediamo spostarsi freneticamente e picarescamente di qua e di là, con una scalcagnata automobile gialla, per affiggere manifesti, fare riunioni clandestine e comizi.

Il protagonista arriva nella sua nuova area di operazioni, da Slandia a Bindra, ma lì trova abbandonata la sede dell’organizzazione. Decide comunque di rimanere e, con una vecchia moto, parte alla ricerca delle persone le cui richieste di affiliazione ha trovato nell’immondizia. Ma a tutti gli indirizzi scritti in quei documenti corrispondono palazzi in rovina. Nonostante questo, il leader del gruppo gli chiede se si sente pronto a diventare un “guerriero”, un terrorista. Così come la Scena del silenzio, anche la Scena della storia si conclude con un “sì”. Un altro “sì” disatteso.

Ora, anche a me lettore comune, è chiaro che siamo in un immenso palazzo in cui non si sa cosa aspettarsi di trovare in ogni stanza, e ogni volta che si trova qualcuno o qualcosa si mette in discussione quanto trovato appena prima. Mi sta raccontando una biografia? La sua? O mi sta raccontando la storia dell’impossibilità della biografia nei termini di razionalità che siamo soliti accettare? È realismo magico? È il racconto di un inframondo? Lo voglio davvero seguire?

III-Scena della festa

Dopo il seminario e la militanza, il protagonista si è messo in testa di diventare scrittore, stravolgendo ancora il “sì” conclusivo della Scena della storia. Ora vive a Milano.

Un giorno, suona alla sua porta il messo di un editore rimasto sbalordito dal suo manoscritto. Vorrebbe subito incontrarlo. Il protagonista ne scopre faticosamente l’identità: è il Gatto, il prefetto maggiore del seminario della Scena del silenzio. Anche lui ha abbandonato il seminario; parla a sfinimento di quel manoscritto al protagonista (gli propone anche di distruggerlo come modo per renderlo immortale), in passeggiate e feste durante le quali ai due capita d’incontrare grandi figure dalla letteratura del passato (un elemento che ricorrerà anche nei volumi successivi). E anche questa terza parte degli Esordi, La scena della festa, finisce in prossimità di un terzo “sì”. Ma, per vedere se anche questo sarà un “sì” disatteso, si dovrà aspettare il volume successivo, e sarà un’immersione nel caos.

Molti dei detrattori di Moresco si sono fermati a Lettere a nessuno. Lì, raccontava – attraverso lettere a editori e figure della cultura italiana – il suo rapporto difficile con il loro mondo, da cui si sentiva continuamente rigettato. E ora, però, negli Esordi vediamo che la sua lotta culturale è entrata anche nella vera e propria carne del suo lavoro di scrittore. Che significa? Non ci possiamo aspettare una trilogia intera su questo conflitto, e allora qual è l’intenzione di trasfigurazione di quel dato biografico? Per quale fine lo userà? Quella volontà di trasfigurazione c’è davvero? O meglio, esiste la possibilità di trasfigurare qualcosa – noi, il mondo – la cui natura non può essere che sempre e soltanto trasfigurata?

Canti del caos

Come Gli esordi, Canti del caos è diviso in tre parti. A differenza del precedente, è stato pubblicato in tre volumi diversi, nel 2001 e nel 2003 rispettivamente da Feltrinelli e Rizzoli, e poi nel 2009 l’ultimo, che li riuniva tutti, da Mondadori.

È un romanzo che pare espandersi organicamente, come se gli avvenimenti esplodessero l’uno dentro l’altro. C’è un riprodursi incessante di nuove narrazioni coerenti che si nutrono del continuo abbandono dei filoni narrativi in favore di altri, scaturiti da elementi del testo anche apparentemente insignificanti, in una sorta di struttura autogenerante.

I capitoli che si susseguono sono narrati dal personaggio che di volta in volta dà il titolo al Canto (Canto del divoratore, Canto del donatore e così via) oppure dai personaggi del Matto e dal Gatto. L’opera è dunque composta di due livelli principali: quello del dialogo tra il Gatto e il Matto, generatori della miriade di avvenimenti, e quello delle storie inserite in mezzo. Ma non è raro che i due livelli si confondano.

Canti del caos, prima parte

Il libro si apre con una prefazione in cui la voce narrante è quella del Gatto, nella veste di editore in cui lo abbiamo lasciato nell’ultima parte degliEsordi. Dice di avere a che fare con un autore che, fino a quel momento, si è divertito a prendere per il naso. Lo ha soprannominato il Matto e capiamo che si tratta del protagonista degli Esordi. Da qui in poi, il Gatto passa all’ironia e incita con derisione e rivalità lo scrittore a dargli un capolavoro.

Ma basta poco perché lo sguardo visionario del Matto ci trascini nel mondo di Canti del caos, fatto di pornografia estrema, oscenità, corpi seviziati, violenza e perversità che spingono ai limiti la sopportazione del lettore, fra prostitute schiavizzate e figure dalla furia distruttrice inaudita. Solo i nomi grotteschi della miriade di personaggi bastano in sé a esprimere il carattere estremo di quanto narrato. Molti dei fili narrativi sono costituiti da corse, ricerche, inseguimenti, con un effetto di propulsione narrativa continuamente rinfocolata.

Parte il secondo volume della trilogia e ritroviamo una figura di editore. Ma a ogni pagina esplode tutto ciò che abbiamo conquistato nella pagina precedente. Perché ci vuol far sbattere in faccia tutto quello schifo di cui è capace l’umanità? E perché, per entrare nella maniera più profonda possibile nella testa del lettore, quello schifo dell’umanità ce lo racconta distaccandosi da quello che gli umani stessi ritengono reale e narrabile? Che gli abbiamo fatto di male a Moresco?

Canti del caos, seconda parte

La seconda parte ha un andamento più lineare. Si apre con un’invocazione alla Musa, che ritornerà e sarà fondamentale. Dopodiché, ci si ritrova immersi nella situazione che occuperà buona parte di questa seconda parte di Canti del caos. Si tratta di un brief con due account e l’art director di un’agenzia pubblicitaria, che discutono la strategia migliore per un’operazione di vendita del tutto singolare e per conto di un cliente particolare: la vendita del pianeta Terra da parte di Dio.

La seconda parte si conclude con un momento collettivo in cui appaiono tutti i personaggi insieme a Dio che, con il microfono vicino alla sua maschera di porcellana (che deve indossare perché ha il volto ustionato dalla luce scaturita dalla creazione), sta per dare un atteso annuncio. “D’ora in poi ci sarà solo questo tempo immobile, esploso, fino alla fine”, dice Dio nel suo discorso con voce afona, perché inascoltata da troppo tempo. Ma alla fine l’annuncio non arriva.

Accenno i nomi di alcuni dei personaggi che si succedono in queste pagine, non per mera elencazione, ma perché quei nomi lasciano ben intuire il carattere estremo loro e della narrazione di cui fanno parte. Ci sono i divoratori, il suonatore di prepuzio, la ragazza dalle sole gengive, il sovrano sulla cyclette, l’uomo che incendia le spore, Nervina, le esplose, lo stupratore di donne gravide, Ditalina, la ragazza non c’è assorbente che tenga, la donna dalla testa espansa, l’agente segreto Lazlo, una formazione terroristica senza nome né obiettivi, un laringectomizzato, l’uomo con la paresi masturbatoria, il ginecologo spastico, l’operaio dalla faccia bianca (già incontrato in Gli esordi), la Meringa (poi Leonarda), il donatore di seme (e softwerista), che crea un videogioco sulla guerra tra i Roller (i giovani, su rollerblade) e i Trampolieri (gli anziani, su trampoli fosforescenti), e infine papa Elvis II (successore di Elvis I, morto per overdose), che appena eletto si affaccia al balcone rinuncia e scioglie la chiesa.

Ora sembra chiaro che Moresco si voleva sbarazzare prima possibile del tempo e voleva scostare le barriere del narrabile a cui eravamo abituati, senza però dover finire in quelle narrazioni in cui l’irreale è un codice di genere facilmente accettabile. Ma non è che quelle barriere se le costruisce in testa e poi ce le attribuisce per il solo fine di mettere la sua letteratura al servizio di quella distruzione? A che serve? A chi serve?

Canti del caos, terza parte

Nella terza parte di Canti del caos continua l’accostamento vorticoso di eventi e narrazioni. Ma il racconto si espande, e finisce per assumere proporzioni galattiche. Le trame si fanno più astratte e la lingua del testo assume mano a mano una forma che segue l’apertura temporale e l’apparente paradossalità della successione degli avvenimenti, con ponti tra azioni compiute in epoche e luoghi lontanissimi tra loro. I piani temporali coincidono sia nel racconto sia nella lingua. Appaiono progressivamente, per esempio, termini quali “primadopo” o “padrefiglio”, in una sorta di accelerazione, contrazione e dilatazione degli eventi e dello spazio.

Gli avvenimenti, per i personaggi, accadono in una zona liminare tra l’esser già morti e il non essere ancora nati, prefigurando la parte finale della trilogia. Scopriamo che il Gatto è il demonio, per esempio, mentre il Matto dirà di chiamarsi come l’autore. In quel caos interstellare, emerge alla fine il tema portante: l’increazione. Arrivati alla soglia di un vero e proprio collasso narrativo, il libro si chiude. Il campo è pronto per la terza e ultima parte di questa trilogia di trilogie: Gli increati.

C’era davvero bisogno di metterci di mezzo vendite del mondo e Dio e costellazioni e una lingua che si contraddice da sola negando il suo prima e durante e dopo? Lo stordimento che a me, lettore comune, ha dato la lettura di Canti del caos mi porterà da qualche parte? Si ha la sensazione di aver letto con fatica un libro così impervio sentendosi ora pronti a qualcosa: ma cosa? Intanto, un risultato: che non è più il caso di parlare di “opera-mondo”, come fanno in troppi. “Opera-mondi” può andare meglio? O è un’opera-universi che Moresco vuol fare?

Gli increati

Gli increati è uscito il 10 marzo 2015, per Mondadori. È diviso ancora in tre parti: il Proemio dei morti, quello dei vivi e infine degli increati.

Parte prima, proemio dei morti

Il narratore ci dice di essere morto e di parlare da una delle città dei morti. Lì, il tempo non esiste, “esistono le cose e le parvenze delle cose nel tempo”. Ogni volta che vi arrivano gruppi di nuovi morti, la decadenza della città viene peggiorata dal terremoto causato dallo scontro tra la faglia dei vivi e quella dei morti.

Il protagonista ritrova la Pesca, che abbiamo già incontrato negli Esordi, nella casa di Ducale. Com’è sempre successo e succederà, la ritrova per poi perderla di nuovo. Ma il protagonista decide di ritrovarla ancora e ancora, e da lì inizia una serie di folli corse in cui incontra figure quali Lazzaro, Aldo Moro, Lenin e la Musa di Canti del caos. Intanto i terremoti si fanno più forti e frequenti. Le città dei morti sono vicine al collasso, e gli eserciti dei morti e dei risorti preparano una guerra. In quella frenesia preapocalittica, il protagonista ritrova la Pesca. Insieme salgono in cima a una delle torri, pronti a tracimare nel mondo dei vivi.

E dopo tutto quel trambusto di Canti del caos ora Moresco mi porta, a me lettore comune, semplicemente nel mondo dei morti? Non bastava già Dante? In Canti del caosMoresco ci ha sbattuto tra tempi e universi, e ora quella voce che ci ha parlato di tempi e universi è semplicemente morta. La storia è trascinante come non mai, ma che significa tutto ciò? Che giro vuol fare Moresco per arrivare dove vuol arrivare?

Parte seconda, proemio dei vivi

Nella seconda e più corposa parte di Gli increati, il protagonista è di nuovo nel mondo dei vivi, dov’è “tracimato”. Si ritrova dov’è nato, a Mantova, nella casa d’infanzia. Lì suo padre è impegnato a difendere la casa e la famiglia dai rastrellamenti delle truppe dei vivi contro i morti tracimati. Riescono a scappare e si disperdono.

Il protagonista è inseguito dal cacciatore di morti. Nella sua peregrinazione, il protagonista torna poi nel seminario della Scena del silenzio degli Esordi. Lì ritrova il Gatto, tornato a indossare la tonaca come all’inizio della trilogia. La vita in seminario riprende nella tensione della guerra in corso, e la scena di una messa in latino diventa l’occasione per una sorta di disputa teologica sulla situazione fra i vivi e i morti e le altre figure. Scopriamo che il Dio dei vivi è diverso dal Dio dei morti. Scopriamo anche che la vendita del mondo tramata in Canti del caos era proprio da parte del Dio dei vivi a quello dei morti. Ma devono scappare tutti dal seminario: arrivano gli squadroni dei vivi.

Il protagonista incontra poi un gruppo d’insorti, composto da guerriglieri delle lotte rivoluzionarie del passato e di tutto il mondo, compreso Ernesto Che Guevara (incontrerà anche Pasolini). La battaglia degli insorti contro le forze dei vivi aggiunge un altro livello alla coesistenza temporale di quanto accade: il sogno. È nei sogni che gli insorti della storia sono tracimati, ed è lì che vogliono combattere.

Continua la fuga del protagonista, tra i fronti di guerra, gli assedi, gli incendi, i gruppi in rivolta e tutti i personaggi che vengono dal suo passato e dal suo futuro insieme, in una commistione dei piani temporali da cui la narrazione ormai non può più tornare indietro. E c’è una nuova schiera di nemici: gli immortali.

Dopo aver ancora una volta ritrovato e perso la Pesca, il protagonista arriva a Milano. Sta bruciando, è stata bombardata con missili a testata genetica. Ma casa sua è intatta, e abbandonata. Lì trova una figura identica a lui, un altro sé. Cominciano a parlare, ma l’altro se stesso s’indebolisce sempre di più, fino a morire, proprio mentre stanno discutendo del libro di cui sono personaggi.

Intanto, la guerra è al suo apice. Il protagonista incontra figure provenienti da tutte le epoche della storia, e sono tutte in fiamme. Sono le torce. Cominciano a camminare tutti insieme e arrivano alla reggia, a Villa Reale. Lì viene invitato a entrare solo il protagonista, mentre le torce aspettano fuori. C’è una festa, una di quelle in cui erano soliti trovarsi il Gatto e il Matto negli Esordi: è la festa degli immortali, dove si trovano anche la Musa e il Gatto, che scopriamo essere il Dio degli immortali. Il protagonista e le torce ripartono e arrivano presto a un’altra reggia, a un’altra festa. Stavolta entrano anche le torce. Incontrano la Pesca, che li guida nel palazzo. Alla festa ci sono tanti dei personaggi incontrati nella trilogia, le cui vicende si stanno confondendo e unendo sempre di più. È la festa degli increati e, davanti agli occhi del protagonista, sta avvenendo l’increazione.

Come alla fine del Proemio dei morti, la Pesca e il narratore salgono in cima a una torre, stavolta pronti a gettarsi nell’increazione.

Non rimane che far propria la distesa di domande che si fa il protagonista, gettandoci anche noi nel libro come se ne fossimo personaggi anche noi. E lo siamo, personaggi di questi mondi. La trilogia ci ha portati fino a questo: a condividere in tutto e per tutto lo stesso sbigottimento del protagonista. Ma è servita solo a questo? È servita solo a farci partecipi di una mente che si fa domande troppo più grandi di sé? Perché Moresco doveva tirarci dentro l’angoscia di quelle domande che fatichiamo a capire? Ma siamo allo stesso tempo tramortiti e lucidi come non mai. Si deve andare avanti nella lettura, come attirati da un immenso magnete, o da un buco nero che non spaventa. Qual è il prezzo? Qual è il premio? Chi ci assicura che ci sarà convenuto capire quello che troveremo alla fine di questa trilogia? Dov’è l’uscita di sicurezza? Ma come si fa a guardare un libro e parlarne mentre si è costretti a socchiudere gli occhi e proteggerli con il braccio dalla sua luce abbagliante? Solo pochi giorni fa ci hanno detto in cento modi di non guardare il Sole per vedere l’eclissi, e allora come parlarne? Non rimane che andare, e increarsi da lettore con i personaggi.

Parte terza, proemio degli increati

Il Proemio degli increati, la parte più breve delle tre, comincia dalla suprema delle sovrapposizioni a cui la narrazione ha preparato il campo finora. A narrare, qui, è infatti il creatore. Sbigottito, racconta di quando ha creato l’universo, il primo uomo e la prima donna. Con la prima donna intesse un dialogo amoroso e, allo stesso tempo, conoscitivo rispetto a quanto sta accadendo. Pur essendo lui il creatore e lei la creata, la donna risponde alle sue domande e al suo bisogno di capire. Capiamo che quella donna – la prima donna – è di nuovo la Pesca. Poi, puntualmente, lei sparisce.

Il creatore tracima allora nel mondo dei vivi per ritrovarla, come sempre ha fatto il protagonista. Perché il creatore è il protagonista, quello che abbiamo seguito finora in tutto il libro. La moltiplicazione delle identità crea in lui dubbi su tutto. Mentre si guarda allo specchio e si riempie di domande, attraverso quello specchio si sdoppia da lui la figura del distruttore, e separare il protagonista dal creatore – e poi dal distruttore – è impossibile.

Anche il distruttore parte alla ricerca della Pesca. La trova e si perdono ancora, perché non può essere diversamente. Allora risorge nella vita, per ritrovarla ancora. Ma il mondo si sta distruggendo. Il distruttore, dopo essersi sdoppiato dal creatore, ora è diventato l’increatore. Tutti questi sdoppiamenti e moltiplicazioni gettano il narratore in un vortice di dubbi e domande fatte a se stesso e agli altri, per tentare di capire. E quella confusione è la stessa che prende il lettore, perché quello che ci dice il libro è che, per arrivare al vertice conoscitivo a cui ci porta questa monumentale trilogia, l’unico modo possibile è quello di farsi aspirare da questo potente tornado di avvenimenti, aperture, paradossi spazio-temporali della narrazione e vortici di vortici.

Gli increati, poggiando su quanto costruito dai primi volumi della trilogia, è quel vortice di vortici, è quella unica via possibile a quanto il progetto di questa opera si era dato come obiettivo esplorativo e conoscitivo ultimo. Arrivati alla fine, lo stordimento e la destabilizzazione del lettore appaiono l’unica via possibile per raggiungere quello stato di percezione estremamente dilatata che dà a questa opera un senso compiuto e trionfale, senza possibilità di scorciatoie ma con la complicità della bellezza e la forza di molte di queste pagine.

Il finale. Creatore, distruttore, increatore e gli altri personaggi si ritrovano ancora alla festa nella reggia degli increati, una festa ormai espansa ai mondi e agli universi, tra fuoco e luci. “Ci siamo persi e ritrovati continuamente, io e la mia sposa, attraverso le parvenze della storia umana e del tempo e delle sue narrazioni e visioni”. L’intreccio di queste tremila pagine di storie e personaggi e mondi si unisce “al centro di un grande anello di fuoco e luce”. Non ci sono più pagine. Creatore, distruttore e increatore non ci sono più, così come nessuno dei personaggi. L’opera è finita, ma è stata proprio questa a dirci che niente può iniziare e finire. Ma l’opera è finita. Rimane solo l’increato.

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