Ogni anno escono nuovi romanzi che sono del tutto o in gran parte originali. Essendo più facile rintracciare influenze che capire se qualcosa è davvero nuovo, libri e saggi di critica letteraria tendono a sottolineare la continuità. Un recensore tirerà in ballo Kafka di fronte a qualcosa di insolito e Melville se il testo è epico o romantico, a prescindere da quanto contenga di innovativo il romanzo in questione. Eppure scorrendo i titoli pubblicati di recente in varie lingue vi trovo più di qualche sorpresa. I veri scrittori amano l’originalità.
Per esempio, l’eccellente Trieste di Daša Drndić potrebbe essere definito docufiction, in quanto combina una certa quantità di fatti storici (i nomi e le date di nascita e morte delle vittime goriziane dell’olocausto) con la storia di un bambino nato da una donna del posto e un soldato nazista e allevato in un asilo per bambini “ariani” privilegiati.
Il confine tra narrativa e non fiction si sta facendo via via più sottile. Ben Lerner, un giovane americano, ha di recente pubblicato un romanzo intitolato 10:04 in cui racconta quella che parrebbe la storia autobiografica di un giovane scrittore di successo di Brooklyn, ambientandola durante il black-out che ha colpito New York con l’uragano Sandy. Uno dei temi del libro è il bizzarro sdoppiamento dei déjà-vu, sebbene le esperienze passate non coincidano perfettamente con il presente. Questo sdoppiamento sembra correre parallelo all’esigua distanza tra l’autore e il protagonista.
Di certo l’esempio più celebrato di questa frontiera abbattuta tra romanzo e memoir è La mia lotta, ovvero la disamina in sei volumi della vita di Karl-Ove Knausgaard. Lo si paragona erroneamente a Proust, ma Proust reinventa continuamente la storia della propria vita. Al contrario, Knausgaard resta più fedele che può alla propria esperienza. Mentre il protagonista di Alla ricerca del tempo perduto è un nevrastenico cocco di mamma con l’asma, Knausgaard è talmente insignificante da divenire affascinante a un livello quasi visionario – gli piacciono le ragazze, la birra, gli sport, la musica pop – e anche laddove è anormale, per esempio nell’inquieto rapporto con il padre o nella battaglia adolescenziale contro l’eiaculazione precoce, il personaggio resta altrettanto interessante. Nessuno prima si era spinto a questo livello di microconfessioni.
Carrère ha ammesso di usare le tecniche apprese come romanziere per rendere la sua nonfiction tesa e ricca di suspense.
In Francia, Emmanuel Carrère, dopo aver scritto narrativa con un certo successo (Baffi, La settimana bianca) ha cominciato a scrivere un capolavoro di nonfiction dopo l’altro. In alcuni suoi libri l’autore è presente come personaggio con un ruolo di maggiore o minore importanza, mentre in altri è del tutto assente. Per esempio, in L’avversario racconta la storia vera di un uomo che finge di essere un dottore e di lavorare a Ginevra ma che in realtà se ne sta in macchina tutto il giorno mentendo sul proprio conto alla moglie e ai figli, ai genitori, ai suoceri, alla sua amante, campando con i loro risparmi e fingendo di fare ottimi investimenti finché la sua amante non pretende di essere rimborsata. A quel punto la sua vita va in pezzi. Dà fuoco a casa sua con la famiglia all’interno e poi uccide i suoceri. Viene catturato e condannato all’ergastolo. In prigione si pente e dichiara di aver trovato Gesù Cristo, ma Carrère ha i suoi dubbi.
In un’intervista uscita sulla Paris Review, Carrère racconta il metodo che ha seguito. Si tratta di un consiglio fornito dal romantico tedesco Ludwig Börne: “Per tre giorni consecutivi sforzati di scrivere qualunque cosa ti passi per la testa rimanendo sempre spontaneo e sincero. Scrivi ciò che pensi di te stesso, delle tue mogli, di Goethe, della grande guerra turca, del Giudizio universale, dei tuoi superiori, e rimarrai stupito scoprendo quante nuove idee si saranno palesate. Ecco, queste sono le basi dell’arte di diventare uno scrittore originale in tre giorni”.
Dopo aver lottato per anni per scrivere L’avversario in terza persona usando diversi punti di vista, Carrère abbandonò il progetto con centomila pagine di materiale di ricerca accumulate. All’ultimo momento decise di scrivere una specie di promemoria per se stesso in prima persona in cui raccontava ciò che quell’uomo e la sua storia avevano significato per lui. Cominciò mettendo a confronto le sue attività di un dato giorno con quelle dell’assassino Jean-Claude Romand:
“La mattina di sabato 9 gennaio 1993, mentre Jean-Claude Romand stava uccidendo sua moglie e i suoi figli, io ero con i miei a un incontro tra genitori e insegnanti alla scuola di Gabriel, il nostro primogenito. Aveva cinque anni, la stessa età di Antoine Romand. Poi andammo a pranzo con i miei genitori, come Jean-Claude Romand fece con i suoi prima di ucciderli a fine pasto”. Il resto del libro venne fuori spontaneamente.
Carrère ha ammesso di usare le tecniche apprese come romanziere per rendere la sua nonfiction tesa e ricca di suspense. Ha quindi continuato a scrivere della Russia postsovietica, della devastazione causata dallo tsunami di cui è stato testimone a Java, di una lettera semipornografica indirizzata alla sua ragazza, della collaborazione del nonno materno con i nazisti nella Bordeaux occupata, e più di recente, in Regno, delle sue difficoltà con la religione.
Il rinnovato romanzo storico mette in evidenza le stranezze del passato, ovvero il modo diverso in cui i nostri antenati vivevano e amavano.
Se percorrere la linea sottile che separa la narrativa dal memoir è un’innovazione recente in letteratura, un’altra novità è rappresentata da Vladimir Sorokin, che con _La giornata di un o__pričnik_ ha scritto una sorta di distopia visionaria. Allo stesso modo di Gary Shteyngart – il quale in _Super sad true love story_ immagina come sarà New York governata dai cinesi, ovvero un mondo in cui i dati economici e il valore finanziario di ogni individuo saranno esibiti in pubblico mentre si cammina per strada – Sorokin dipinge l’affresco terrificante di una futura Russia violenta e senza leggi. Con la differenza, però, che non tutti gli elementi presenti nel romanzo di Sorokin appartengono alla Russia di Putin o ne rappresentano un’esagerazione.
Molti degli eventi e delle trovate non sono che fantasiose invenzioni dell’autore che conferiscono a questa storia cupa un’atmosfera quasi fiabesca. La distopia (che sia razionale o fantastica) si sta dimostrando una strada tanto divertente quanto terrificante per il romanzo.
Se la distopia è una fosca prefigurazione del futuro, il romanzo moderno ha rielaborato in maniera drastica anche il romanzo storico, un genere piuttosto snobbato in passato. Pura, dello scrittore inglese Andrew Miller, di recente tradotto in italiano, è la lancinante e precisa rivisitazione della nuova sepoltura di centinaia di corpi nella Parigi del tardo diciottesimo secolo.
Mentre fino a un centinaio d’anni fa il romanzo storico era spesso una tragedia in costume, un melodramma di cappa e spada pieno di romantici desideri appagati, sentimenti contemporanei in abiti di broccato, il rinnovato romanzo storico mette in evidenza le stranezze del passato, ovvero il modo diverso in cui i nostri antenati vivevano e amavano. Il fiore azzurro di Penelope Fitzgerald è un ritratto frizzante ma ricco di dettagli autentici del poeta romantico tedesco Novalis. È un libro che rinuncia al denso impasto della ricerca storica in favore del particolare più vivo e realistico; la sensazione è quella di trovarci nella stessa stanza dei protagonisti.
Master Georgie di Beryl Bainbridge ci conduce per mano nel cuore della guerra di Crimea, così come Wolf Hall di Hilary Mantel ci trasporta nell’insidiosa corte di Enrico VIII. Un neo sul collo cattura la nostra attenzione, o il lieve tremore di una mano che sfiora una collana. Ridurre il numero delle pagine puntando tutto sui dettagli – questa è la formula per il nuovo romanzo storico. Ed è quella che ho seguito per il mio Hotel de Dream, sullo scrittore americano del tardo ottocento Stephen Crane.
È chiaro che non tutte le innovazioni nella narrativa sono formali; in molti casi esse sono l’espressione di voci nuove, mai sentite prima. Scuola di nudo di Walter Siti è la brillante trascrizione del mondo interiore di un professore omosessuale. Metà di un sole giallo di Chimamanda Ngozi Adichie mette in scena le tensioni della metà cristiana della Nigeria durante il conflitto con la metà musulmana del nord.
Neel Mukherjee in The lives of others ci regala un passaporto per l’India – per varie epoche, molte regioni e caste diverse. L’anno scorso è stato nominato per il Booker Prize, ma il libro che l’ha vinto è The narrow road to the deep north dello scrittore della Tasmania Richard Flanagan, una ricostruzione della vita dei prigionieri di guerra australiani in Birmania durante il dominio giapponese. Ciò che rende questo libro degno di nota sono la compassione e la comprensione profonda espresse per i personaggi giapponesi durante la sconfitta e l’occupazione.
Dato che scrivo biografie e saggi oltre a romanzi e opere teatrali, nella mia mente la distinzione tra verità e invenzione è molto chiara.
Grazie a varie strategie di rinnovamento, il romanzo è oggi vivo e florido. La mescolanza di finzione e realtà, di memoir e narrativa, è al momento una potente fonte di energia. Un’altra è la reinvenzione del romanzo storico. E una terza è l’ingresso di voci nuove mai sentite prima o tenute in sordina.
I libri a tematica gay ormai ci sono familiari, ma esistono ampie zone ancora inesplorate. Per esempio in Jack Holmes e il suo amico ho scritto di un tema molto comune nella vita reale, ovvero l’amicizia non sessuale tra un uomo etero e uno gay nel corso di molti anni, una storia che ho affrontato prima dal punto di vista dell’uomo gay e poi da quella dell’etero. Nel mio nuovo romanzo ancora inedito – Our young man – racconto la storia di un ragazzo che fa il modello e non invecchia mai, un po’ come un Dorian Gray senza la malvagità.
Quando cominciai a scrivere Un giovane americano, non era frequente che un signor nessuno scrivesse un memoir. Bisognava essere famosi generali, attori o inventori. E così chiamai il mio libro “romanzo”, in modo da avere la libertà di modificare la cronologia e rendere il mio personaggio più rappresentativo di quanto non fossi io nella vita reale. Oggi questa fusione di generi è chiamata “autofiction”, ma a quell’epoca il termine non esisteva.
Finii per scrivere una trilogia che include La bella stanza è vuota e La sinfonia dell’addio, libri che dall’epoca della liberazione gay nel 1969 arrivavano agli anni dell’aids. Mi sembrava, questa, una tematica appassionante perché era nuova; la maggior parte degli scrittori è sempre in cerca di temi che siano tanto nuovi quanto universali.
Non ho mai scritto nulla di ambientato nel futuro (è possibile che quel tipo di immaginazione mi sia preclusa) ma ho pubblicato due romanzi storici. Per me il modo di affrontare un romanzo storico è trovare una pagina bianca, qualcosa di ignoto, e riempirla. Quando la storia cede, ecco che subentra la finzione. Nel caso di Stephen Crane, si dice che stesse scrivendo un romanzo gay su un giovane che si prostituiva, ma fu costretto dai suoi amici ad abbandonare il progetto e buttare tutto – era troppo scandaloso. Così decisi di scriverlo io per lui, intrecciandolo con i dettagli noti della sua vita e della sua morte prematura a 28 anni di tubercolosi.
Nel mio libro Fanny sapevo che Frances Trollope, la madre del romanziere, era arrivata negli Stati Uniti negli anni venti dell’ottocento e che aveva vissuto nella piantagione di Memphis dell’idealista scozzese Frances Wright. La mia intenzione era opporre una sopravvissuta, la signora Trollope, a una ricca idealista tutta d’un pezzo, la signora Wright. Di entrambe le donne si sapeva molto in termini di vita pubblica, ma fu compito mio inventarne le passioni nascoste in quel periodo pieno di ottimismo della storia americana.
Ho scritto anche tre romanzi fantasy – non nel senso di fantascientifici ma con strane sovrapposizioni di epoche storiche diverse. Per esempio il Giappone antico e la New York moderna in Forgetting Elena.
Dato che scrivo biografie e saggi oltre a romanzi e opere teatrali, nella mia mente la distinzione tra verità e invenzione è molto chiara. Come gran parte dei lettori, mi infastidisco quando gli scrittori inventano dei fatti in quelli che hanno la pretesa di essere dei memoir. Il patto con il lettore è molto diverso in un romanzo e in un’autobiografia.
Ma sto divagando. Ciò che mi preme dire è che la letteratura è più ricca e fertile che mai e che gli scrittori stanno sperimentando nuovi modi di renderla sempre più attraente e profonda. Il romanzo resta la forma artistica per eccellenza per esplorare i nostri pensieri, per scavare nelle nostre menti, ed è proprio laggiù che tutti noi viviamo.
(Traduzione di Fabio Viola)
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