Quando si parla della grande crisi del sistema economico e finanziario globale, di solito molti ricordano il crollo della banca d’investimento Lehman Brothers nell’autunno del 2008. In realtà tutto è cominciato almeno l’anno prima con i fallimenti di altre banche, come la Bear Stearns (sempre negli Stati Uniti) e la Northern Rock (nel Regno Unito).

Per questo da qualche settimana escono sui giornali analisi e intere serie di articoli che ripercorrono i primi dieci anni della crisi più grave dai tempi della grande depressione. Lo ha fatto, per esempio, Le Monde. Si parla di cos’è cambiato, di cosa va ancora male o di nuovi pericoli all’orizzonte, e si raccontano anche le storie di personaggi chiave nella grande crisi. Tra loro ricorre spesso il nome di John Paulson, l’investitore che, come dice il quotidiano francese, con il suo fondo Paulson & Co. “è stato uno dei pochi ad arricchirsi con il crollo della finanza globale”.

Paulson fu uno dei pochi a scommettere sul crollo del mercato immobiliare e in particolare dei famigerati mutui subprime (i prestiti ipotecari concessi a persone che non davano sufficienti garanzie di restituire i soldi). Mise in piedi una grande operazione di vendita allo scoperto (short selling, in inglese), strumento tipicamente usato da chi scommette sul ribasso di un titolo: lo short seller, infatti, prende in prestito un titolo e lo vende al prezzo di mercato; in seguito dovrà ricomprarlo per restituirlo al prestatore, prevedendo che per quel momento il prezzo sarà sceso e potrà ricavare un guadagno.

Paulson fece esattamente questa operazione, un po’ com’è descritta in The big short (La grande scommessa, in italiano), un film del 2015 diretto da Adam McKay e tratto da un libro di Michael Lewis. In questo modo Paulson guadagnò personalmente 3,7 miliardi di dollari e molti altri soldi (circa dodici miliardi) arrivarono ai facoltosi clienti del suo fondo che gli avevano affidato la gestione dei loro soldi.

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Dieci anni fa, quindi, Paulson poteva essere a buon diritto considerato una delle stelle di prima grandezza dell’industria finanziaria statunitense, scrive Bloomberg. “Oggi, invece, ha difficoltà a trovare nuovi clienti, messi in fuga da una serie incredibile di insuccessi e scommesse sbagliate, come quelle sul prezzo dell’oro, sui titoli di stato dell’eurozona o sulle azioni delle aziende farmaceutiche”.

Nel 2011, all’apice del suo successo, Paulson “gestiva capitali per 38 miliardi di dollari”. Ora i capitali sono scesi a dieci miliardi, di cui otto sono la sua fortuna personale e i restanti due i soldi di clienti esterni. Negli ultimi due anni i capitali gestiti sono diminuiti di “sei miliardi, tra perdite sugli investimenti e clienti che hanno deciso di ritirare i loro soldi”. Il manager non ha intenzione di “cedere all’idea di un fondo che contenga solo i suoi soldi. Negli ultimi due anni ha aperto tre altri fondi, ma alla fine del 2016 in uno di questi restavano i capitali suoi e dei dipendenti”.

“Oggi Paulson sembra avere più successo in politica che negli investimenti”, scrive il New York Times. “È stato uno dei primi a Wall street ad appoggiare Donald Trump nella corsa alla presidenza, dandogli consigli in materia economica e in più una donazione di 250mila dollari. Spesso viene invitato alla Casa Bianca, ma i suoi clienti non hanno motivi per essere impressionati dai suoi legami politici, visto che il suo principale fondo, il famoso Paulson & Co., continua a registrare perdite enormi”.

Eppure, dopo la crisi, fondi pensioni e altri investitori facevano la fila per arrivare a Paulson: “Trump diventò suo cliente, ma forse anche l’attuale presidente degli Stati Uniti ci ha perso dei soldi. Dopo l’exploit dei mutui subprime, Paulson ha commesso troppi errori”.

La crisi greca
D’altronde, ricorda il New York Times, a Wall street si dice che “i risultati passati non garantiscono nessun guadagno futuro”. Uno dei fondi che compongono la galassia della Paulson & Co., l’Advantage, ha perso il 36 per cento nel 2011 e il 14 per cento nel 2012. Si è ripreso nel 2013, ma nei tre anni successivi è tornato a registrare perdite a due cifre. Paulson ha anche perso soldi con le crisi debitorie della Grecia e di Puerto Rico. Poi, nel 2015, ha creato un fondo dedicato alle azioni delle aziende farmaceutiche e dei servizi sanitari, ma ha perso due miliardi con i titoli della Valeant.

Il suo declino, scrive il Washington Post, rispecchia le difficoltà dell’intera industria della gestione patrimoniale. “Nel 2016 gli investitori hanno ritirato dal settore 111 miliardi di dollari, mentre sono stati chiusi più di mille fondi, il risultato peggiore dal 2008”. Nel frattempo sono sorte nuove stelle, anche se lontane dalla grandezza raggiunta da Paulson dieci anni fa. “Nel 2016, per esempio, James Simons, capo del fondo Renaissance Technologies, ha guadagnato 1,6 miliardi di dollari, o 4,3 milioni al giorno. E nel complesso i 25 principali protagonisti del settore hanno incassato undici miliardi di dollari”.

E John Paulson? Secondo Forbes, anche dopo anni di perdite resta una delle persone più ricche del mondo, con un patrimonio personale di 7,9 miliardi di dollari. Oggi, fa notare la rivista, è solo più povero di due miliardi di dollari.

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