La statua della partigiana Giulia Lombardi, uccisa a 22 anni dai fascisti nel 1944, è stata incendiata nella notte tra domenica 21 e lunedì 22 aprile 2019 a Vighignolo, una frazione di Settimo Milanese. Il monumento dedicato alla staffetta partigiana, realizzato in legno di noce, era stato inaugurato pochi giorni prima, il 14 aprile 2019, dalla sezione locale dell’Anpi.
“Questo ennesimo atto provocatorio si inquadra nelle sempre più inquietanti e diffuse manifestazioni e iniziative neofasciste che offendono la memoria di chi ha sacrificato la propria giovane vita per la libertà di tutti noi”, ha commentato in una nota il presidente del comitato provinciale di Milano dell’Anpi, Roberto Cenati. Si trattava di uno dei pochi riconoscimenti del ruolo delle donne nella resistenza italiana, di solito trascurato dalla storiografia e dalle istituzioni.
La resistenza taciuta
Secondo alcune stime le donne che hanno partecipato alla resistenza sono state settantamila, ma probabilmente sono molte di più. Tuttavia il loro ricordo è entrato solo recentemente nella storia ufficiale della resistenza italiana. “Dopo la fine della guerra, direi a partire dal 1948, c’è stato una specie di silenzio generale sulla resistenza femminile”, afferma la storica Simona Lunadei, autrice di molti testi sull’argomento tra cui Storia e memoria. Le lotte delle donne dalla liberazione agli anni 80. “Questo perché si cercò di normalizzare il ruolo delle donne, che proprio durante la guerra avevano sperimentato un’emancipazione di fatto dai ruoli tradizionali”, afferma la storica. Uno degli pochi documentari sull’argomento fu quello di Liliana Cavani, Le donne nella resistenza del 1965 e il romanzo L’Agnese va a morire di Renata Viganò pubblicato nel 1949.
“A partire dagli anni sessanta, con le lotte per l’autodeterminazione femminile e i cambiamenti profondi in corso nella società, si cominciò a rivendicare un ruolo per le donne che affondasse anche nella storia della repubblica e nella resistenza”.
Molte donne che hanno partecipato alla resistenza non hanno chiesto un riconoscimento perché sentivano di aver fatto solo il loro dovere
Nella maggior parte dei casi le partigiane hanno fatto le staffette: portavano cibo, armi, riviste, materiali di propaganda. Rischiavano la vita, torture e violenze sessuali. Ma non erano armate, quindi non si potevano difendere. Molte donne inoltre hanno avuto ruoli di protezione dei partigiani: li nascondevano, li curavano, portavano loro i viveri nei nascondigli, si preoccupavano della loro sopravvivenza. Altre, in numero minore, hanno partecipato direttamente alla lotta armata.
“Non sarebbe stata possibile la resistenza senza le staffette, tuttavia dopo la guerra poche donne chiesero di essere riconosciute come partigiane”, racconta la storica. Si poteva essere riconosciute come partigiane solo se si aveva partecipato alla lotta armata per almeno tre mesi all’interno di un gruppo organizzato riconosciuto. “Se una donna faceva la staffetta difficilmente poteva documentare la sua attività partigiana, questo ha significato che pochissime sono state riconosciute come partigiane e sono entrate nel Pantheon della resistenza” . Poi c’è un altro elemento, secondo Lunadei. “Molte delle donne che hanno partecipato alla resistenza non hanno chiesto un riconoscimento perché hanno dichiarato che sentivano di aver fatto solo il loro dovere”.
Il tabù delle armi
Le donne che hanno ricevuto medaglie d’oro al valore per le loro azioni durante la resistenza sono state solo diciannove: Irma Bandiera, Ines Bedeschi, Gina Borellini, Livia Bianchi, Carla Capponi, Cecilia Deganutti, Paola Del Din, Anna Maria Enriquez, Gabriella Degli Esposti Reverberi, Norma Pratelli Parenti, Tina Lorenzoni, Ancilla Marighetto, Clorinda Menguzzato, Irma Marchiani, Rita Rosani, Modesta Rossi Polletti, Virginia Tonelli, Vera Vassalle, Iris Versari, Joyce Lussu.
Inoltre le donne che hanno partecipato direttamente alla lotta armata hanno dovuto affrontare grandi ostacoli nelle stesse brigate partigiane a cui appartenevano. Nel libro in cui raccoglie le sue memorie, Con cuore di donna, Carla Capponi, figura centrale della resistenza romana, vicecomandante dei Gap (Gruppi di azione patriottica), racconta per esempio che i suoi compagni non volevano concederle l’uso della pistola e per questo fu costretta a rubarla su un autobus affollato e anche in questo caso i compagni provarono a sottrargliela.
“Il problema è il tabù delle donne che esercitano la violenza, che ovviamente era molto forte in un contesto culturale tradizionalista come quello italiano. Riconoscere alle donne la possibilità di esercitare la violenza armata avrebbe significato riconoscere un’uguaglianza di genere”, afferma Lunadei. “Le pochissime donne a cui alla fine fu consentito l’uso delle armi hanno sempre raccontato in seguito i problemi che questo creava loro, in termini culturali e pratici”.
Tuttavia a partire degli anni novanta, secondo la storica, le donne che hanno partecipato direttamente alla resistenza italiana, anche con ruoli di responsabilità, hanno cominciato a parlarne pubblicamente e , anche grazie al lavoro di molte storiche, a essere intervistate e a scrivere dei libri e delle memorie. Molte di loro scrissero delle autobiografie tra queste: Libere sempre di Marisa Ombra, Con cuore di donna di Carla Capponi, Portrait di Joyce Lussu, La ragazza di via Orazio di Marisa Musu, Autobiografia di Maria Teresa Regard.
“Anche figure importanti come Marisa Ombra, Marisa Rodano, Lucia Ottobrini, Marisa Musu, Carla Capponi, Maria Teresa Regard hanno aspettato gli anni novanta per cominciare a parlare di quello che avevano vissuto”, racconta Lunadei. “La memoria è strettamente collegata alle categorie concettuali del momento storico in cui è espressa. E non si può non fare una riflessione su questo processo anche collettivo che ha permesso a queste donne straordinarie di raccontare le loro storie solo in un determinato momento storico, cioè molto tardi”, spiega la storica. “Solo alla fine della guerra fredda, per esempio, Lucia Ottobrini ha potuto dire la sua avversione per le truppe alleate che avevano bombardato le popolazioni civili facendo molte vittime. Prima ovviamente questa parte del racconto non poteva essere riportata”.
Una storia emblematica è proprio quella del riconoscimento al valore assegnato a Lucia Ottobrini. Ottobrini è una figura centrale della resistenza romana, entrò l’8 settembre 1943 nella lotta armata e partecipò direttamente a diverse importanti azioni contro i nazifascisti. Nella primavera del 1944 da capitano diresse una divisione di partigiani che avevano la missione di difendere una centrale idroelettrica dagli attacchi tedeschi. Per questo e altri episodi della resistenza romana nel 1956 fu insignita della medaglia d’argento al valor militare. Si racconta che il ministro della difesa dell’epoca, Paolo Emilio Taviani, mentre le consegnava la medaglia le domandò: “Lei è la vedova del decorato?”.
“Fu il presidente vietnamita Ho Chi Minh a riconoscere il valore di Lucia Ottobrini, a lungo impegnata per i movimenti di liberazione anticoloniale. A partire da questo riconoscimento all’estero si cominciò a parlare della sua figura”, spiega Lunadei. La Società italiana delle storiche e gli istituti storici della resistenza hanno fatto un lavoro di ricerca importante a partire dalla fine degli anni ottanta, che ha spinto molte protagoniste della resistenza a condividere le loro memorie e a renderle pubbliche.
“C’è un lavoro che ancora andrebbe fatto: dovremmo ricostruire i fili biografici di queste donne – che in molti casi purtroppo sono già scomparse – per permetterci di raccontare quello che finora è stato taciuto. Carla Capponi per esempio non è soltanto una donna coraggiosa che riesce a diventare vicecomandante di una divisione dei Gap, è anche una leader che ha organizzato le proteste delle donne nelle borgate romane durante l’occupazione nazista, ma anche dopo, nelle lotte degli anni cinquanta. Carla Capponi è anche questo e forse anche questo va studiato e capito”, conclude la storica.
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Questo articolo è stato aggiornato il 24 aprile 2020.
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