Annalisa Camilli è a bordo della Ocean Viking per seguire la missione di soccorso di Sos Meditérranée e Medici senza frontiere.

Guardando l’orizzonte con il binocolo notturno la sera prima, il capomissione della nave Ocean Viking Nicholas Romaniuk lo aveva previsto: “Con il mare così piatto e due settimane di cattivo tempo che ci lasciamo alle spalle, nelle prossime ore ci saranno molte partenze. Quello che temo è che se ci sarà un’emergenza, ce ne dovremo occupare da soli”. La nave di Sos Meditérranée e Medici senza frontiere è arrivata nelle acque internazionali di fronte alla Libia sei giorni fa, dopo essere partita da Marsiglia il 9 novembre. Il cattivo tempo con venti fino a sessanta nodi ha imperversato nel Mediterraneo centrale e non ci sono state richieste di soccorso. Il 17 novembre Ocean Viking ha trovato un gommone sgonfio e vuoto, 35 miglia a nord di Zuara, i resti di un naufragio. Per sei giorni non ci sono state richieste di aiuto da parte delle autorità libiche, né da parte di quelle italiane e maltesi. Le radio di bordo sono rimaste in silenzio.

Poi il 19 novembre alle quattro di mattina l’imbarcazione umanitaria ha ricevuto un’email dalla piattaforma di volontari Alarm Phone. L’email era indirizzata alla guardia costiera libica. Parlava di un gommone in difficoltà partito da Zawiya il giorno prima con almeno un centinaio di persone a bordo, che stava navigando verso nord alla velocità di tre nodi. Romaniuk ha continuato a chiamare i libici, ma non ha ricevuto risposta. La guardia costiera italiana è stata allertata, ma ha detto che non era al corrente di quello che stava accadendo nella zona di ricerca e soccorso che dal giugno del 2018 è sotto il coordinamento dei libici. La nave umanitaria ha deciso di fare rotta verso il gommone in difficoltà, 42 miglia a nord di Zawiya. “Non abbiamo ricevuto risposta e ritenendo che la priorità fosse la sicurezza delle persone abbiamo informato le autorità con un’email e ci siamo diretti verso l’imbarcazione in difficoltà”.

Momento del condor
Con le prime luci dell’alba, è stato avvistato un puntino bianco tra le onde, carico di persone. Sono stati lanciati in acqua due gommoni di salvataggio, Easy 1 e Easy 2, che a tutta velocità si sono diretti verso l’imbarcazione, a tratti coperta dalle onde. Quando li hanno visti, le persone hanno cominciato a urlare e ad agitarsi. “State calmi, dovete fare quello che vi diciamo, non vi agitate”, ha gridato in francese Tanguy, il vicecoordinatore della missione di soccorso. “Prima vi daremo dei giubbotti di salvataggio, poi trasferiremo le donne con i bambini, infine porteremo in salvo tutti voi, dovete stare tranquilli”.

Le operazioni di soccorso al largo della Libia, il 19 novembre 2019. (Annalisa Camilli)

Tanguy ha una lunga esperienza come soccorritore, era un vigile del fuoco in Francia, poi ha lasciato l’esercito per fare soccorsi nel Mediterraneo. “Prima di cominciare un’operazione di soccorso, bisogna portarsi un po’ indietro per avere una visione d’insieme della situazione”, mi aveva raccontato giorni prima, spiegandomi che in questi anni i soccorritori hanno sviluppato delle tecniche avanzate per questo tipo di soccorsi che sono molto difficili e pericolosi. “Bisogna capire quali sono i problemi del gommone e se ci potrebbero essere rischi, le persone nel panico potrebbero causare il ribaltamento dell’imbarcazione”. Momento del condor, lo chiamano i soccorritori. Quello che precede il salvataggio. C’è da capire rapidamente in che lingua è meglio rivolgersi alle persone e stabilire un contatto di fiducia per non alimentare il panico e di conseguenza il pericolo di un ribaltamento.

Il sole sta sorgendo quando Tanguy comincia a distribuire i salvagenti, la prima a salire a bordo di Easy 1 è una donna del Camerun, molto giovane, il volto incorniciato da un fazzoletto nero. “Siamo salvi, non torniamo in Libia”. Tanguy chiede alle donne di prendere tra le braccia i bambini. C’è una ragazzina che viaggia con suo zio, ma sale sul gommone da sola. Si chiama Marghiba, ha otto anni, viene dal Burkina Faso. Ha una camicetta jeans che gioca ad abbottonarsi. Guarda tutti con curiosità e stupore. I più piccoli cominciano a piangere. Ci sono quattro donne incinte, due sono agli ultimi mesi di gravidanza. Mentre le donne salgono a bordo, gli altri ancora sul gommone cominciano a cantare: “Bosa, bosa”. C’è chi piange, chi si fa il segno della croce, chi alza lo sguardo al cielo, chi esulta.

I primi 25 sono fatti salire a bordo di Easy 1 che raggiunge velocemente la nave, nel frattempo preparata per accoglierli. “Benvenuti a bordo”, sono le prime parole che gli sono rivolte dall’equipaggio della nave.

Le donne sono accompagnate nel “rifugio”, il women shelter, un container in cui è vietato l’accesso agli uomini. Si siedono a terra, le accudisce l’ostetrica che comincia a raccogliere i loro dati e le informazioni sulla loro salute. Una donna è incinta di due gemelli e mentre l’accompagnano a fare la doccia confessa che ha deciso che chiamerà i due gemelli Ocean e Viking, in ricordo della nave che li ha salvati. Mentre i medici sono ancora impegnati a fare i primi accertamenti, i libici chiamano il ponte di comando della nave umanitaria. “Ci hanno informato che una motovedetta stava venendo verso di noi”, racconta Romaniuk.

In attesa del porto di sbarco
Dopo un’ora e mezza la motovedetta Fezzan ha chiamato il ponte di comando della Ocean Viking, voleva sapere com’era avvenuto il soccorso e a quale latitudine. Il coordinatore delle missione Nicholas Romaniuk ha fornito tutti i dati. Ci sono stati momenti di silenzio sul ponte, mentre la motovedetta libica si stava avvicinando alla nave. Tutti i responsabili della missione erano sul ponte di comando. Da settembre i libici hanno emanato un codice di condotta che preoccupa molto le ong che svolgono soccorsi, perché prevede anche la confisca dell’imbarcazione. Se i libici avessero chiesto di salire a bordo, gli avrebbero risposto che non potevano farlo.

Le navi di Msf e Sos Meditérranée in passato sono state attaccate dai guardacoste libici, e questo spinge l’equipaggio alla cautela in questi casi. Ma dopo qualche minuto la motovedetta si è allontanata e ha ripreso a navigare verso ovest. Ocean Viking, che non ha ancora richiesto un porto di sbarco, si dirige lentamente verso nord. “Le condizioni del mare sono buone e temiamo che ci sia ancora bisogno di noi in questa zona”, conferma Romaniuk. Ci sono altre due navi di soccorso attive al momento nella zona di ricerca e soccorso maltese, ma non si spingono nell’area di ricerca e soccorso libica per un’interdizione del governo spagnolo, sono la nave Open Arms e la nave Aita Mari. Altre sei imbarcazioni umanitarie, invece, sono ancora sotto sequestro in Italia.

Gli operatori della Ocean Viking soccorrono i migranti che erano a bordo di un gommone in difficoltà a 42 miglia da Zawiya, il 19 novembre 2019. (Annalisa Camilli)

“Abbiamo soccorso 94 persone, 45 uomini, undici donne, tra cui quattro in gravidanza, e 38 minori, tra cui sei bambini piccoli”, afferma Michael Fark, coordinatore della missione di Medici senza frontiere (Msf) a bordo. “Le condizioni di salute sono buone, i medici stanno verificando. Ci sono due donne in avanzato stato di gravidanza e dei bambini molto piccoli, ma per ora nessuna emergenza”, continua Fark. La nazionalità di origine sono Camerun, Costa d’Avorio, Nigeria e Mali. Ma anche Benin, Burkina Faso, Gambia, Ghana, Repubblica Centrafricana, Guinea, Senegal, Sierra Leone, Togo. Almeno 29 ragazzi sono minorenni non accompagnati. Tre ore dopo il soccorso, tutti dormono nei container di protezione costruiti sul ponte della nave.

Tutti tranne Naou, una donna del Camerun, che mi racconta di aver provato tre volte ad attraversare il mare. “Sono sempre stata catturata e riportata indietro dai libici, incarcerata per due anni”. Questa volta ce l’ha fatta. “È un miracolo”, dice. Mentre intorno a lei tutte le altre sono cadute in un sonno profondo.

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