“La soluzione militare è esclusa”, ha detto il ministro degli esteri italiano Luigi Di Maio al termine del suo viaggio ufficiale in Libia del 17 dicembre, durante il quale ha incontrato il premier del governo di accordo nazionale (Gna), Fayez al Sarraj, a Tripoli e subito dopo, a Bengasi, l’uomo forte della Cirenaica, il generale Khalifa Haftar. Per Di Maio – che ha annunciato la nomina di un inviato speciale italiano in Libia – l’unica strada percorribile è quella della diplomazia internazionale, che tuttavia sembra avere sempre meno margini di manovra. Pochi giorni prima ai Med dialogue di Roma l’inviato delle Nazioni Unite in Libia Ghassan Salamé aveva parlato di “fallimento” del processo di pace condotto dall’Onu e dell’estrema debolezza espressa negli ultimi anni dal Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Al ritorno a Roma Di Maio ha detto che l’Italia è pronta a trovare una soluzione diplomatica alla crisi, insieme agli altri paesi europei, ma la realtà sembra più complicata.
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— Ali Ahmed (@LibyaPro2) ?
La soluzione diplomatica di fatto consiste nell’organizzazione della conferenza di Berlino, voluta dal governo tedesco sotto l’egida dell’Onu, che dovrebbe svolgersi alla fine di gennaio del 2020 e dovrebbe avere come obiettivo il raggiungimento di un cessate il fuoco e la ripresa dei negoziati di pace. Tuttavia la data della conferenza non è stata ancora fissata e rischia di saltare dopo che nelle ultime settimane il generale Haftar ha annunciato di voler sferrare l’attacco finale per conquistare Tripoli. Questo è il segnale, secondo gli esperti, che Haftar non ha nessuna intenzione di sedersi al tavolo dei negoziati.
Il ruolo della Russia e della Turchia
Negli ultimi mesi il conflitto libico ha assunto sempre di più una dimensione internazionale e da guerra per procura potrebbe presto trasformarsi in un conflitto regionale. Dalla fine di ottobre, i russi sono entrati in maniera più massiccia nella guerra al fianco del generale Haftar sia con mercenari sia con l’invio di armi. Il governo di accordo nazionale e le milizie che lo appoggiano sono in forte difficoltà. Ma Al Sarraj può contare sulla presenza sempre più aggressiva della Turchia: il 10 dicembre il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha annunciato che, se necessario, potrebbe inviare a Tripoli le truppe turche da schierare al fianco delle milizie fedeli al Gna in base a un accordo di cooperazione militare stipulato a fine novembre.
La posta in gioco è alta: Ankara il 27 novembre ha firmato un memorandum d’intesa sui confini marittimi con Tripoli che prevede l’espansione della presenza turca nel Mediterraneo con la proclamazione di una Zona economica esclusiva nel Mediterraneo orientale, che prevede l’espansione delle concessioni petrolifere. L’accordo ha scatenato le proteste della Grecia e di Cipro che si sentono minacciate dalla presenza turca nel Mediterraneo. Per questo, Atene ha espulso il rappresentante diplomatico di Tripoli nel paese, ha tolto il suo riconoscimento allo Gna e ha avviato dei colloqui con Haftar. Mossi dagli stessi timori, altri paesi europei potrebbero ritirare il proprio appoggio ad Al Sarraj, che lo scorso weekend ha incassato di nuovo il sostegno del Qatar, partecipando insieme a Erdoğan a un vertice a Doha con l’emiro Tamim bin Hamad al Thani, che si è detto pronto a sostenere Tripoli “sul piano sia economico sia della sicurezza” per “ripristinare la stabilità” nel paese africano.
Grazie all’appoggio di Russia, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Giordania, Arabia Saudita e Francia, Haftar ha ottenuto il controllo dello spazio aereo in quella che è stata definita da Salamé “una guerra senza combattenti”, perché si svolge di fatto con i droni. Secondo un rapporto, dall’inizio del conflitto, ad aprile del 2019, ci sarebbero stati un migliaio di bombardamenti con questi velivoli senza pilota.
La Libia è nel caos a partire dal 2011, dopo la rivoluzione che ha portato alla caduta del dittatore Muammar Gheddafi. Da allora il paese non ha pace. Haftar e il suo autoproclamato Esercito nazionale libico (Enl) ha consolidato la sua influenza su Bengasi e sulla parte orientale della Libia, mentre il primo ministro Fayez al Sarraj controlla Tripoli con il sostegno di diverse milizie locali.
Il 4 aprile 2019 il generale ha sferrato un attacco su Tripoli. Anche se domina lo spazio aereo, Haftar ha fatto pochi progressi sul campo e c’è chi teme che anche se dovesse avviare bombardamenti più massicci, come annunciato, potrebbe non ottenere mai il controllo del territorio. I bombardamenti si sono concentrati alla periferia di Tripoli e l’attacco finale non è ancora avvenuto, in ogni caso.
“Tutti sanno che sarebbe un bagno di sangue: le milizie che appoggiano Al Sarraj sono pronte a vendere cara la pelle, non vogliono cadere nelle mani di Haftar, che è considerato un epigono di Gheddafi”, spiega Luca Raineri, ricercatore della Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa. “Le milizie di Misurata, molto forti, qualche giorno fa hanno invocato una mobilitazione generale per contrastare l’avanzata di Haftar”.
E l’Europa?
L’Unione europea è la principale sostenitrice del processo di pace e di stabilizzazione della Libia, nel quadro definito dall’Onu. “Il problema è che questo processo diplomatico si è arenato diverse volte e continuare a dire che non ci può essere una soluzione militare equivale a non riconoscere la realtà: Haftar non vuole trattare. È già successo che avesse accettato di partecipare a un tavolo dei negoziati solo per prendere tempo, e che contemporaneamente sferrasse un attacco per sabotare la pace”, spiega Raineri.
D’altro canto, sul fronte del Gna, è molto difficile individuare una soluzione diplomatica, perché il governo di Al Sarraj è molto debole e si deve confrontare ogni volta con i capi delle milizie. Queste non hanno interesse alla pace, perché il disarmo metterebbe fine a una serie di attività illegali (traffici di armi, persone, petrolio) che sono una parte importante della loro economia. “Per questo l’Europa e l’Italia si sono concentrate su due aspetti marginali nel contesto libico e più facili da risolvere nel breve periodo, come la lotta al traffico di esseri umani e quella al terrorismo”, continua Raineri. “Si è negoziato con le milizie: interlocutori parastatali, presi singolarmente e scelti per la loro capacità di controllare una zona specifica”, spiega il ricercatore. Per esempio, la lotta al traffico di esseri umani è passata da accordi, anche informali, con le milizie che controllavano i porti da cui partivano i migranti.
Per il ricercatore tuttavia gli interessi economici dell’Italia in Libia per il momento non sono a rischio: “Dopo la caduta di Gheddafi, l’Eni ha esteso la sua influenza in Libia: mantiene buoni rapporti sia con Haftar sia con Al Sarraj”. Dalla guerra di Sabrata del settembre del 2017, Haftar ha assicurato che anche prendendo il controllo della zona non avrebbe messo in discussione la presenza dell’Eni nell’impianto di Mellitah, vicino a Sabrata, ottanta chilometri a ovest di Tripoli. “Il temporeggiare di Roma nel conflitto libico è legato alle garanzie evidentemente ottenute sul fatto che chiunque vinca non metterà in discussione gli interessi economici italiani. Per questo l’Italia svolge il ruolo di mediatrice, con un profilo basso e con i piedi in due scarpe”.
Ma il governo italiano potrebbe avere fatto dei calcoli sbagliati, visto che secondo le ultime notizie la Russia e la Turchia sono pronte a condurre dei negoziati bilaterali per trovare un accordo in Libia. Al momento questo sembra lo scenario più plausibile: il ministro turco per gli affari europei Mevlüt Çavuşoğlu al forum di Doha ha confermato che “Erdoğan e Putin stanno discutendo tra di loro per fermare lo spargimento di sangue in Libia”.
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