Dal 2 ottobre 2018, giorno della sparizione del giornalista Jamal Khashoggi dopo che, accompagnato dalla fidanzata turca Hatice Cengiz, si era presentato al consolato saudita per ritirare un nulla osta per il suo prossimo matrimonio, il rapporto con i mezzi d’informazione è stato gestito con cura dal governo di Ankara, che giorno dopo giorno ha centellinato ai giornalisti pezzi di notizie da “fonti anonime”.
Il 15 ottobre, quando la polizia turca ha perquisito il consolato, le notizie si sono fatte più precise, soprattutto grazie alla pubblicazione sul giornale filogovernativo Yeni Şafak di una registrazione di sette minuti che non lasciava dubbi sulla tortura e sull’uccisione del giornalista all’interno del consolato.
Dopo aver coltivato la suspence per alcuni giorni, il presidente Recep Tayyip Erdoğan ha ribadito il 23 ottobre davanti al parlamento turco la tesi di un “assassinio premeditato” commesso da una squadra di 15 agenti sauditi, di cui faceva parte il medico legale Salah Muhammed al Tubaigy che avrebbe poi tagliato a pezzi il corpo di Jamal Khashoggi.
Con un paradosso – che non è affatto l’unico in questo tragico assassinio – il presidente che ha incarcerato il maggior numero di giornalisti nella storia turca si è vestito in queste ore da paladino della libertà di stampa e della trasparenza in Medio Oriente. Nello stesso discorso, Erdoğan si è anche dichiarato pronto a collaborare con le Nazioni Unite e la giustizia internazionale, insinuando un prossimo ricorso presso la Corte penale internazionale.
Vittime e carnefici
Intanto in Arabia Saudita Salah Khashoggi, figlio del primo matrimonio del giornalista, e ora agli arresti domiciliari in Arabia Saudita con divieto di viaggiare all’estero, ha dovuto posare davanti alle telecamere mentre dà la mano a re Salman e al principe ereditario: ‘”Una foto che parla da sé”, titola Al Jazeera Arabic. Il suo vestito bianco è tutto spiegazzato, nota il sito del Qatar, e il suo viso teso mentre dà la mano ai presunti mandanti dell’assassinio di suo padre è un’immagine straziante.
Secondo il quotidiano governativo saudita Okaz – dove Khashoggi aveva lavorato due anni – nel suo discorso Erdoğan si sarebbe invece “congratulato con il governo saudita per la serietà dell’inchiesta”.
Un assassinio commesso in un consolato – luogo per definizione di protezione – ha il fascino per la stampa di una cupa spy story
Dopo aver negato la sua morte a lungo, il governo saudita ha tardivamente confermato l’assassinio del giornalista presentandolo come conseguenza di “un interrogatorio andato male in seguito a una lotta” e ha annunciato l’arresto di quattro dignitari sauditi tra cui Saud al Qathani, che verosimilmente ha monitorato l’uccisione via Skype, come hanno rivelato le registrazioni. Saud al Qathani è l’uomo di fiducia del principe ereditario Mohammed bin Salman (Mbs) e il manager dei suoi social network.
Il caso mediatico
In questi 18 giorni, il caso Khashoggi è anche diventato un caso mediatico internazionale. L’inchiesta ha occupato quotidianamente le prime pagine dei giornali occidentali e arabi. Certamente, un assassinio commesso in un consolato – luogo per definizione di protezione – in un paese terzo e certamente non amico dell’Arabia Saudita pone molte domande e ha il fascino per la stampa di una cupa spy story sostenuta dalla fuga di notizie turche fatte trapelare poco a poco.
Ma si sente anche, in questa attenzione giornalistica, una reazione a questo anno di campagna di comunicazione forsennata da parte del principe ereditario Mohammed bin Salman che, a colpi di miliardi pagati ad agenzie di comunicazione in tutto il mondo, pannelli pubblicitari con la sua immagine nelle capitali occidentali e campagne promosse sui social network come Twitter, ha cercato di gestire la sua immagine e consolidare il suo potere nella famiglia reale.
Esattamente un anno fa, il lancio della Future investment initiative rappresentava l’incoronazione del principe ereditario come il riformista e il modernizzatore del regno insieme al suo progetto multimiliardario Neom e la sua Vision 2030 destinata a diversificare l’economia del paese dopo l’era del petrolio. Quella che è stata soprannominata la Davos nel deserto, quest’anno è stata disertata dai grandi investitori, con l’assenza principale dei grandi capi di banche d’investimento e ministri delle finanze dei paesi più ricchi.
La campagna di Mbs aveva anche sedotto molti giornalisti rinomati – come per esempio Thomas Friedman che sul New York Times aveva scritto l’articolo “Finalmente, la primavera dell’Arabia Saudita”, criticato già all’epoca come un articolo di parte. Dopo l’uccisione di Khashoggi, sembra che anche il giornalismo globale abbia deciso di riprendere in mano la questione.
Lo Yemen non scandalizza
Molti hanno espresso alcune critiche nel vedere il mondo dei mass media indignarsi in questo modo per la morte di un collega mentre si parla a stento di un’altra tragedia orchestrata dal principe ereditario in quanto ministro della difesa saudita: la guerra in Yemen decisa da lui nel 2014, è la più grande catastrofe umanitaria del secolo secondo le Nazioni Unite.
I segnali d’allarme delle organizzazioni umanitarie sono rimasti quasi inascoltati, malgrado otto milioni di persone sull’orlo della carestia e la più grave epidemia di colera della storia moderna.
Per la premio Nobel yemenita Tawakul Karman invece, le condanne intorno all’assassinio di Khashoggi rappresentano una nuova occasione per fare luce sulla tragedia yemenita: “Credo che il sangue di Jamal Khashoggi porterà la pace nella regione se sarà effettivamente punito”, ha dichiarato Karman al Guardian. Il giorno stesso della conferma dell’uccisione, l’editoriale del Washington Post era intitolato “È tempo di mettere un freno alla guerra saudita in Yemen” e chiedeva chiaramente una nuova posizione americana davanti all’alleato saudita.
Per Madawi al Rasheed, professoressa alla London School of Economics e autrice del libro Salman’s legacy: the dilemma’s of a new era in Saudi Arabia (L’eredità di Salman: il dilemma di una nuova era in Arabia Saudita), Riyadh deve pensare ora a vere e profonde riforme o il paese “si deteriorerà fino a diventare un stato pariah, scosso dagli scandali passati e futuri, fino a quando esploderà dall’interno”.
Allargando il dibattito, il ricercatore e politologo Mohamed Mahmoud Ould Mohamedou su Le Temps considera che il brutale assassinio “mette in discussione tre concetti: il miraggio delle riforme del principe ereditario Mohammed bin Salman, la cecità dei dirigenti politici occidentali verso gli autocrati arabi e la disgregazione delle norme internazionali”.
Se Mohammed bin Salman ha potuto dare l’ordine di eliminare un giornalista in questo modo è perché “ha potuto in questo zeitgeist globale osservare il presidente americano qualificare i giornalisti come ‘nemici’ e degli agenti russi organizzare il tentativo di avvelenamento di un’ex spia russa e di sua figlia nel Wiltshire britannico”.
Il sentimento di totale impunità con il quale Mohammed bin Salman ha agito “conferma così la caduta libera del diritto internazionale”.
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