Tra le incessanti proteste del venerdì in Algeria e l’instaurazione di un regime di transizione in Sudan, il 2019 vede rifiorire quei temi e quelle manifestazioni che più di otto anni fa avevano portato alla primavera araba. Mentre la Tunisia – primo paese a essersi ribellato – è oggi impegnata in elezioni presidenziali democratiche, l’Egitto, il secondo paese a essere sceso in piazza per la libertà, sta ora vivendo sotto un regime dittatoriale che per assurdo è addirittura peggiore del precedente.

Tuttavia venerdì 20 settembre qualcosa è di nuovo cambiato in Egitto. Considerata la censura e i rischi che si corrono a fare informazione nel paese, è difficile capire cosa sta succedendo esattamente, ma si è fatta strada una certezza: gli egiziani sono di nuovo pronti a dire kefaya (basta) al leader corrotto. E come titolano i giornali indipendenti panarabi: “È di nuovo caduto il muro della paura”.

Non è successo niente
Per informarsi sull’accaduto è inutile provare a leggere i quotidiani egiziani. Per loro non c’è niente da raccontare. E se qualche giornalista straniero aspirasse a segnalare alcunché, il ministero egiziano dell’informazione ha prontamente provveduto a scrivere un comunicato stampa per spiegare che non sta succedendo niente. Orwelliano.

Confermando ancora una volta la propria natura violenta, il regime ha contrattaccato prima ancora di essere attaccato: i servizi segreti egiziani hanno sequestrato questa settimana il fratello di Wael Ghonim, Hazem. Ghonim, uno degli eroi della rivoluzione del 2011, era un consulente di Google che aveva lanciato il primo hashtag famoso della rivoluzione “We are all Khaled Said” (Siamo tutti Khaled Said), dal nome del giovane alessandrino pestato a morte dalla polizia. Ghonim, che ora vive in California, ha lanciato un appello per la liberazione di suo fratello, che è semplicemente un dentista.

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Unico luogo di libertà possibile per gli egiziani, lo spazio dei social network ha visto scatenarsi una tempesta inaspettata la settimana scorsa con l’hashtag #BastaAlSisi (#كفايه_بقى_ياسيسى), arrivato al primo posto in Egitto e sesto a livello mondiale. All’origine del movimento online l’attore e uomo d’affari egiziano Mohamed Ali che, fuggito in Spagna, ha svelato lo stato di corruzione del potere egiziano con un documento intitolato: “Esporre la corruzione dell’esercito e del capo di stato”.

Mohamed Ali, l’uomo responsabile della tempesta sui social network, è un personaggio sui generis. Il suo modo di esprimersi è chiaramente popolare - ha origini umili e non lo nasconde – ed è molto carismatico. Ha anche tentato di spiccare il volo come attore autoproducendo il film L’altro paese, che narra di un giovane migrante egiziano. Negli ultimi anni era diventato un importante costruttore edile che lavorava anche per l’esercito. Sul suo profilo Facebook sono postate molte foto di lui a cavallo o con la sua auto sportiva, non si vergogna di essersi arricchito. Ora però ha deciso di parlare dal suo esilio spagnolo in seguito a dei mancati pagamenti da parte del governo e denuncia il fatto che il presidente Abdel Fattah al Sisi “si costruisce palazzi mentre gli egiziani mangiano dalla spazzatura”.

Attaccare l’esercito rimane un grande tabù nel paese e Mohamed Ali svela anche le cifre dei soldi pubblici usati per l’abitazione personale di Al Sisi e fa molti nomi. La sua forza è che fino all’altro ieri, non lo nasconde, faceva parte del sistema: “Siamo tutti corrotti, ma non siamo tutti da condannare. Dobbiamo condannare il sistema. Al Sisi non vuole cambiarlo. Ora serve un sistema completamente nuovo”.

Venerdì, in seguito all’appello di Mohamed Ali, piccoli gruppi di temerari – Al Sisi ha tolto il diritto di manifestare nel 2013 – si sono radunati al Cairo, ad Alessandria e a Suez per dire “Al Sisi fuori”. La risposta delle forze dell’ordine non si è fatta attendere e sono stati effettuati centinaia di arresti. Oltre 365 persone secondo l’Egyptian centre for economic and social rights, tra cui l’avvocata Mahienour el Massry, famosa attivista per i diritti umani. È stata fermata il 22 settembre mentre usciva dal posto di polizia dove era andata a visitare alcune persone arrestate.

I manifestanti hanno fatto prova di grande coraggio se si considera che la situazione dei diritti civili in Egitto è una delle peggiori al mondo. Sugli account Facebook delle persone che avevano partecipato alla rivoluzione del 2011, oggi per la maggior parte in esilio, si è diffusa una domanda: come resistere a questo potere autoritario e corrotto senza farsi uccidere o arrestare e perdere la battaglia in partenza? Altra possibilità discussa: il fatto che oggi il movimento sia centrato sulla corruzione fa pensare che ci sia un gruppo di opposizione interna al potere che potrebbe voler far cadere Al Sisi.

Intanto, come scrive l’editorialista egiziano Ahmed Youssouf Ali sul quotidiano Al Araby: “Questi movimenti ci riportano tutti all’entusiasmo del 2011 e ricordano soprattutto una cosa: la vittoria degli egiziani è inevitabile, che sia oggi o domani è diventato un imperativo storico, com’è inevitabile la partenza di Al Sisi”. Il “dittatore preferito” di Donald Trump, conclude Ali, “dovrà partire come è arrivato”.

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