Aretha Franklin è morta il 16 agosto a 76 anni. Già a dodici sembrava sapere cosa sarebbe diventata. È cresciuta cantando e suonando il pianoforte in chiesa, con gli occhi sul padre C.L. Franklin, un predicatore battista e attivista per i diritti civili e una figura carismatica nella comunità nera di Detroit, la città in cui la famiglia si stabilì negli anni cinquanta.
La madre morì quando lei aveva dieci anni, ma casa loro era sempre piena di gente: Martin Luther King era un amico di famiglia e la prima donna del gospel, Mahalia Jackson, era una presenza femminile fissa nell’adolescenza di Aretha. Il padre è morto nel 1984, dopo cinque anni di coma: una notte di giugno del 1979 un uomo era entrato in casa e gli aveva sparato contro due colpi di pistola. Si è sempre parlato di una tentata rapina.
Franklin cominciò la sua carriera discografica a 14 anni, naturalmente come cantante gospel. Aveva già una voce adulta, era un’artista consumata e soprattutto aveva il piglio da predicatore, un carisma che riusciva a infondere nel suo canto un senso di urgenza e di verità. Come Atena è nata armata dalla testa di Zeus, così Aretha era già interprete, musicista e diva fin da ragazzina.
Il fuoco sacro del gospel
Nel 1960, a 18 anni, ha dovuto spiegare al padre che avrebbe abbandonato la chiesa per darsi alla musica secolare: quella che lei chiamava “pop music”, ma che in realtà erano il soul e il rhythm’n’blues, due generi che Franklin, negli anni in cui ha inciso per la Columbia prima e per la Atlantic poi, ha plasmato a propria immagine, usando sempre come carburante il fuoco sacro del gospel.
Nella monografia dedicata all’album Amazing grace, il giornalista musicale Aaron Cohen riporta un’intervista del 1961 in cui Franklin, a 19 anni, aveva già chiara la sua missione: mettere in connessione religione, blues e diritti civili:
Non credo di aver in alcun modo fatto un cattivo servizio al Signore quando ho deciso di cambiare genere musicale, dopo tutto il blues è una musica nata dalle sofferenze delle mia gente ridotta in schiavitù. Ogni canzone nata nella vena del blues ha una storia d’amore, frustrazione e dolore da raccontare. E sono convinta che la democrazia di oggi non ci abbia affatto liberati, ed è per questo che noi, come gente, troviamo ancora tanto significato nel blues originale.
Eppure il suo album più completo e importante, quello in cui la sua voce è al massimo della potenza e della delicatezza, Franklin lo registrerà tornando in chiesa. Amazing grace è stato registrato dal vivo il 13 e 14 gennaio del 1972 alla New temple missionary baptist church di Los Angeles ed è gospel, cantato e suonato durante una funzione, con le declamazioni del predicatore e le risposte dei fedeli.
Era in stato di grazia e, dopo dieci anni di “pop music”, tornava alla musica di dio riportandosi tutto a casa: blues, soul e anche il rock’n’roll. Con quel disco ha fatto un lavoro tutt’altro che conservativo: ha restituito alla sua chiesa e alla sua comunità quello che era diventata come artista e come donna. Amazing grace è un manuale di canto e di interpretazione che dovrebbe essere studiato da chiunque pensi di potersi guadagnare da vivere cantando.
Quel doppio album non è un semplice documento, non è solo la registrazione in presa diretta di una funzione in una chiesa battista di Los Angeles con una cantante straordinaria. Amazing grace è forse, insieme a Bitches brew di Miles Davis del 1970, uno dei primi album afroamericani concepiti come opera d’arte in sé.
Se Bitches brew, con i suoi overdub e il suo uso dello studio di registrazione come strumento, era molto di più del tradizionale disco jazz con un quartetto che improvvisava in una sala d’incisione, così Amazing grace è un concept album in cui ciò che è stato detto, cantato e suonato in una chiesa è stato rimontato per raccontare cosa vuol dire per un’artista afroamericana moderna cantare di dio. Significa cantare gli inni, certo, ma significa anche blues, desiderio, sudore e passione politica. Amazing grace può essere ascoltato come l’opera teatrale corale di un intero popolo. Franklin riesce a dare voce a tutti, anche attraverso le generazioni e la storia.
Nei quarant’anni seguenti, ha continuato a tenersi stretta la sua disinibita libertà stilistica. Ha cantato soul, pop, funk e disco in ogni sua forma. La musica della sua gente era la sua musica sempre, in ogni epoca. Negli anni ottanta ha duettato con gli Eurythmics e con George Michael. Con la sua carriera sempre a cavallo tra sacro e profano ha aperto la strada a una delle sue eredi più brillanti e sfortunate: Whitney Houston che in uno dei suoi primi video, How will I know, si rivolgeva a un’immagine di Aretha e cantava: “Lo chiedo a te perché so che di queste cose ne capisci”.
L’ultimo successo
Il suo ultimo album pop di successo, A rose is still a rose (1998), era stato prodotto dal gotha dell’hip hop e dell’r&b dell’epoca: Dallas Austin, Puff Daddy, Lauryn Hill e Babyface. A quasi sessant’anni, Aretha Franklin si misurava con autorevolezza con le artiste afroamericane dell’ultima generazione: Whitney Houston, le Tlc e la sua compagna di etichetta Pink, il fiore all’occhiello di Clive Davis, il discografico che negli anni ottanta fece di tutto per avere Franklin all’Arista/Bmg.
Nel 1998 ha cantato Nessun dorma al posto di Luciano Pavarotti, che aveva dovuto annullare la sua apparizione all’ultimo momento per motivi di salute. In quell’occasione non ha fatto finta di essere una cantante d’opera, non ha cercato di essere Marian Anderson, ma come sempre ha trasformato ciò che cantava in una canzone di Aretha Franklin, in “una storia d’amore, frustrazione e dolore”.
Il giornalista e attivista afroamericano Ta-Nehisi Coates nel suo saggio autobiografico Tra me e il mondo descrive cosa significa sentire il “black power” e si lancia in una delle sue tante analogie musicali: “I sognatori, persi nelle loro fantasticherie, lo sentono perché è Billie che sussurrano nella loro tristezza, è Mobb Depp che urlano nella rabbia, è Isley che citano quando sono innamorati, è Dre che cantano per fare festa, ed è Aretha l’ultima voce che ascoltano prima di morire”.
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