Kanye West, I thought about killing you
“And I think about killing myself and I love myself way more than I love you”. Ci sono versi del nuovo disco di Kanye West che ti rimangono incollati al cervello, quasi ti tormentano. Come quelli del brano d’apertura I thought about killing you, dove il rapper cresciuto a Chicago esplora il suo disturbo bipolare, la dipendenza dai farmaci e gli istinti suicidi.

Ye, il nuovo disco di West, è stato registrato nel Wyoming (una roccaforte della destra bianca, già questa è una provocazione). È un album autobiografico, un po’ come tutti i suoi lavori. Ma stavolta al centro delle canzoni non c’è il solito super uomo spaccone al quale eravamo abituati, o perlomeno non solo quello. C’è una persona in ginocchio, che spesso cerca risposte senza trovarne. In alcuni brani, come in She wouldn’t leave, West sembra quasi scusarsi per tutte le sue uscite a vuoto degli ultimi mesi (l’appoggio a Trump e l’assurda dichiarazione sulla schiavitù come “una scelta”, giusto per citare le due più clamorose) che l’hanno reso un personaggio sempre più contraddittorio, per non dire di peggio.

In Ye ricorrono parole cupe e negative come “minaccia”, “errore”, “fantasmi”. Questo, insieme a Yeezus e 808’s & heartbreak, è il suo disco più oscuro. Dura solo 23 minuti e forse non ha un “singolo” spendibile come in passato, ma ha almeno tre o quattro canzoni di livello assoluto. Oltre al già citato brano d’apertura, spiccano i pezzi più riflessivi come No mistakes, che campiona il cantante gospel Edwin Hawkins e richiama in parte la splendida Ultralight beam di The life of Pablo. Ma anche la successiva Ghost town, dove sono ospiti Kid Cudi e la rapper 070 Shake, non scherza.

È vero, il personaggio pubblico Kanye West è sempre più fuori controllo. Ed è difficile spiegare perché. Ta-Nehisi Coates ha provato a farlo in un meraviglioso articolo uscito qualche giorno fa sull’Atlantic. Eppure il musicista Kanye West, ogni volta che pubblica qualcosa, ci ricorda che dietro all’ego smisurato c’è un enorme talento. E viene quasi voglia di perdonarlo per le sue uscite a vuoto, se in cambio ci regala musica come questa. Ye non è il vertice della sua discografia, ma è comunque un album di ottimo livello.

Attenzione: ieri è uscito il disco di Kanye West e Kid Cudi Kids see ghosts. Non sono ancora riuscito ad ascoltarlo con calma, ma sembra notevole. Ne parleremo la settimana prossima.

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Pusha T, The games we play
A proposito di Kanye West. Per capire quanto sia geniale basta ascoltare il lavoro che ha fatto in veste di produttore sulle basi dei pezzi di Pusha T nell’album Daytona. Anche in questo caso, in realtà, West non si è fatto mancare una mossa di pessimo gusto, scegliendo come copertina del disco la foto del bagno in cui è morta Whitney Houston.

Lo stesso Pusha T, che non è certo uno stinco di santo pure lui, si è tuffato sulle basi di Kanye come un bambino in un negozio di caramelle. Il risultato è un solido disco rap che racconta la vita di strada senza filtri. Il campione di Booker T. Averheart in The games we play vale da solo il prezzo dell’intero disco, come quello del brano funk The truth shall make you free di The Mighty Hannibal all’inizio di Come back baby. Teneteveli da parte, anche questi, per perdonare West la prossima volta che dirà che Trump è “un fratello”.

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Kali Uchis, Tyrant (ft. Jorja Smith)
Isolation, secondo disco di Kali Uchis, è uscito qualche mese fa e all’inizio mi era sfuggito. Qualche giorno fa l’ho ripreso in mano e mi sono accorto che è uno degli album pop migliori che ho sentito negli ultimi mesi. Kali Uchis è nata in Colombia, ma è cresciuta negli Stati Uniti. Ha cantato per Snoop Dogg, Major Lazer e i Gorillaz. Dentro a questo album ci sono parecchie cose: dal neosoul di Erykah Badu alla musica latinoamericana.

Ad aiutarla a scrivere le canzoni ci hanno pensato giusto i primi due sfigati che passavano di lì: Damon Albarn, Thundercat, Jorja Smith e non solo. Michele Boroni ad aprile ha scritto un’ottima recensione su questo disco, che è uscita su Rockol. Se volete approfondire, vi consiglio di leggerla. Il singolo Tyrant è in giro da ancora più tempo, un anno ormai, ma è anche uno dei brani più belli del disco, quindi lo propongo lo stesso anche se non è di strettissima attualità.

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Gorillaz, Humility
Questa settimana nelle canzoni del weekend ricorrono sempre gli stessi nomi, lo so. Ma non è che uno può far finta di niente di fronte al nuovo singolo dei Gorillaz. La band a cartoni animati di Damon Albarn, che suonerà in Italia il 12 luglio, in questi giorni ha pubblicato tre brani che anticipano il nuovo disco The now now, in arrivo il 29 giugno.

Albarn, probabilmente scontento del risultato di Humanz (dove in effetti i troppi ospiti creavano un effetto confusione), ha deciso di fare un album più minimalista, con soli due nomi di spicco: Snoop Dogg e George Benson. Il secondo, leggenda della chitarra jazz, suona in questo pezzo, Humility. In tutte le altre canzoni Damon ha deciso di cavarsela da solo.

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Playboi Carti, Lean 4 real
Die lit di Playboi Carti è la prova che oggi spesso nel mondo del rap sono i produttori a fare la differenza. Playboi Carti è tutto fuorché un bravo rapper, si limita a ripetere quasi sempre gli stessi versi (spesso poveri di significato). Eppure il suo nuovo disco è ipnotico come lo Stregatto. Merito dei beat costruiti dal produttore Pi’erre Bourne, che viene dalla South Carolina ed è considerato un astro nascente dell’hip hop statunitense.

Bourne ha trovato in Playboi Carti la cavia perfetta per i suoi giochi sonori. Die lit è pieno di collaborazioni interessanti: Travis Scott, Nicki Minaj, ma anche la star del rap britannico Skepta, a cui bastano un paio di strofe per sotterrare Carti nell’ottima Lean 4 real. A volte non serve essere un buon rapper per fare un buon disco rap.

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P.S. La playlist è aggiornata con i nuovi brani. Mi scuso con i lettori per la latitanza, ma ho un alibi: ero al Primavera sound.

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