“Fa schifo, la musica rock fa schifo. La odio, mi annoia, è una cazzo di perdita di tempo”, disse Thom Yorke vent’anni fa in un’intervista televisiva. Ovviamente non intendeva dire che la musica con le chitarre era una perdita di tempo, ma che tutta la mitologia e il marketing che ruotavano attorno a quel genere non gli interessavano più. Del resto era il periodo di Kid A, il disco della svolta elettronica dei Radiohead.
A distanza di anni, le tracce della mitologia rock nella musica di Yorke sono sempre più sbiadite. I Radiohead, per fortuna, esistono ancora, ma si prendono pause sempre più lunghe, e da Kid A in poi hanno abbattuto gli steccati tra i generi. Nel frattempo Yorke e Jonny Greenwood, le due menti creative del gruppo, si concedono parecchie libere uscite e vanno verso territori sempre più astratti: elettronica sperimentale, colonne sonore, musica seria.
Il Thom Yorke che si presenta alle nove e mezzo sul palco all’aperto dell’auditorium Parco della musica di Roma quindi non è più il chitarrista nerd introverso degli anni di The bends e Ok computer. È un musicista che preferisce i sintetizzatori e i loop elettronici alle sei corde (come di norma nella sua carriera solista), ma è anche un performer che guarda al teatro e alla danza, sfruttando l’intero spazio del palco e interagendo molto con il pubblico. A guardarlo durante l’esibizione viene in mente il cortometraggio che accompagna il suo nuovo album Anima: un film, diretto da Paul Thomas Anderson, in cui lui e la fidanzata, l’attrice Dajana Roncione, eseguono una coreografia alla Pina Bausch.
Chi era venuto per ascoltare Karma police è rimasto deluso: la scaletta del concerto di Roma non fa alcuna concessione alla nostalgia. Zero pezzi dei Radiohead. L’inizio è affidato a Interference e A brain in a bottle, due brani estratti dal suo terzo disco solista Tomorrow’s modern boxes, forse il meno riuscito della sua carriera, ma che dal vivo assume una veste nuova e più convincente. Sul palco con Yorke ci sono Nigel Godrich, storico produttore dei Radiohead, e l’artista olandese Tarik Barri, che proietta per tutto il concerto degli splendidi visual ispirati a fenomeni naturali e paesaggi lunari, a metà tra psichedelia e fantascienza. La musica e immagini si fondono in un unico flusso e sembra di stare dentro una specie di liquido amniotico.
Il concerto ci mette un pochino a ingranare. Colpa forse anche di una pasta sonora da affinare, con i bassi che coprono un po’ troppo la voce e gli altri strumenti. Ma a partire dal quinto pezzo in scaletta, la splendida Harrowdown hill, lo show decolla. Il brano – una canzone di protesta pubblicata nel 2005 su The eraser e dedicata a David Kelly, un esperto di armi britannico morto suicida nell’Oxfordshire dopo aver sollevato dubbi sul rapporto sulle armi di distruzione di massa usato come giustificazione per invadere l’Iraq – viene suonato con una furia ritmica inedita, mentre Yorke quasi urla le parole. Poi Pink section e Nose grows some, supportate dai visual di Tarik Barri, portano gli spettatori verso territori ambient alla Brian Eno, mentre The clock rialza improvvisamente il ritmo e il sabba ipnotico di Has ended, estratto dalla colonna sonora di Suspiria di Luca Guadagnino, porta il pubblico dentro una spirale psichedelica.
A questo punto il concerto è partito e non si ferma più. Yorke praticamente non fa pause tra un brano e l’altro e verso la fine della prima parte suona due dei brani migliori dell’ultimo disco, Traffic e Twist, guidati da beat martellanti che fanno pensare ai tedeschi Modeselektor, già collaboratori del cantante britannico.
Il pubblico apprezza, per niente contrariato dalla mancanza di pezzi dei Radiohead, e saluta Yorke con un’ovazione. La cavea dell’auditorium del resto si conferma come lo spazio all’aperto migliore di Roma: l’acustica è ottima e la vicinanza tra musicisti e pubblico crea un’atmosfera intima.
Il cantante fa qualche minuto di pausa e poi torna per il primo bis, che secondo la scaletta sarebbe dovuto essere l’unico. Si siede al piano e suona Dawn chorus, una struggente ballata che parla di errori e occasioni perse, probabilmente autobiografica. È il pezzo più riuscito di Anima, e ricorda per intensità alcuni brani dei Radiohead come Fog o la più recente Daydreaming. Il pubblico resta in silenzio, mentre la voce di Yorke riempie lo spazio. In seguito tocca a Cymbal rush e all’amfetaminica Default, nella quale il cantante si scatena con i suoi tipici passi di danza, che sembra chiudere lo show.
Sembra finita, e invece no. Il calore del pubblico spinge Thom Yorke a tornare di nuovo sul palco e a suonare due brani che non erano in scaletta: il quasi valzer per piano e voce Suspirium, altro pezzo scritto per la colonna sonora di Suspiria, e Atoms for peace.
Più di due ore di concerto, con un’intensità notevole e una libertà artistica totale, senza bisogno di ricorrere al repertorio dei Radiohead. Dopo anni di rodaggio (anche discografico: non tutti i suoi album solisti sono stati all’altezza di The eraser e Anima), Thom Yorke sembra aver trovato una dimensione definitiva anche da solista. Ed è a suo agio in questa veste da performer teatrale prestato alla musica pop. Fa strano dirlo per un cantante di cinquant’anni, ma da questo punto di vista il suo percorso artistico sembra appena cominciato.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it