È stata una delle espressioni più discusse prima e dopo l’elezione di Donald Trump e questa settimana fa di nuovo capolino su Internazionale nell’articolo di Jonathan Franzen: alt-right. Durante la campagna elettorale per le presidenziali del 2016, via via che la retorica populista del candidato repubblicano alla presidenza dava energia a quel movimento eterogeneo di estremisti di destra che si fa chiamare appunto alt-right, i giornalisti statunitensi cominciavano a chiedersi: è giusto usare un rassicurante neologismo per definire un movimento che non ha niente di nuovo, e anzi ripropone idee e atteggiamenti da cui la storia ci ha insegnato a stare in guardia?

Come spiega Osita Nwanevu su Slate, il termine alt-right esisteva già dal 2008, ma probabilmente si è diffuso grazie a Richard Spencer, il suprematista bianco che nel novembre del 2016 ha accolto la vittoria di Trump con il saluto nazista e che nel 2010 ha fondato la rivista Alternative Right. Spencer è il presidente del National policy institute, a sua volta nome rassicurante di un centro studi di estrema destra che diffonde razzismo e odio.

“Il passaggio da alternative right ad alt-right coincide con l’esplosione del movimento”, scrive Nwanevu. “È una comoda abbreviazione che non sembra uscita dalla bocca di un idiota e che si presta a viaggiare sul web. Conserva quel misto di alienazione e di ottimismo impliciti nell’atto di affermare con orgoglio una direzione ‘alternativa’, ma li compatta in un formato più conciso. Ricorda il passaggio graduale da alternative rock ad alt-rock, avvenuto quando questo genere musicale ha cominciato a crescere e ad attirare l’attenzione. In entrambi i casi, la crescita è dovuta all’influenza di persone che avevano sempre meno cose da dire e modi sempre più rozzi per dirle”.

Alt-right è solo un’etichetta per indicare gruppi e ideologie purtroppo già tristemente noti

Dal 2016 in poi l’espressione – breve, moderna, accattivante, immediata – si è fatta strada rapidamente sui mezzi d’informazione. Ci è voluto un po’ perché i giornalisti si rendessero conto che era solo un’etichetta per indicare gruppi e ideologie purtroppo già tristemente noti, e che loro stessi rischiavano di assecondare il movimento usando l’etichetta eufemistica che si era confezionato. Così è cominciata la corsa ai ripari. Diversi siti di sinistra hanno deciso di abolire del tutto il termine. “Il lavoro dei giornalisti consiste nel descrivere il mondo così com’è, in modo chiaro e accurato. Usare alt-right significa nascondere il razzismo dichiarato, e rende il nostro compito più difficile”, ha spiegato ThinkProgress.

Online si sono moltiplicati gli appelli alla censura. Alcun copy editor duri e puri hanno coniato un’espressione da usare al posto di alt-right: alt-Reich, che quanto a immediatezza non ha niente da invidiare all’originale. È uscita anche Alt-Right Denormalizer, un’estensione del browser Chrome che sostituisce automaticamente tutte le occorrenze online del termine alt-right con la frase rebranded white nationalism, nazionalismo bianco riciclato.

I copy editor dei grandi mezzi d’informazione si sono affrettati a mettere nero su bianco le loro linee guida in materia. Meno di un mese dopo la vittoria elettorale di Trump il responsabile delle norme editoriali del New York Times, Philip Corbett, raccomandava ai giornalisti: “Evitiamo di usare il termine alt-right da solo, senza spiegazioni (questo significa che raramente si potrà usare in un titolo). Non abbiamo bisogno di ricorrere a espressioni stereotipate che vanno bene per tutto, ogni descrizione della alt-right può mettere l’accento su un elemento, a seconda dell’articolo che state scrivendo: una frangia razzista dell’estrema destra che fa sua l’ideologia del nazionalismo bianco, contraria all’immigrazione, antisemita, antifemminista”. Corbett raccomandava di accompagnare il termine con aggettivi come “cosiddetta”. E concludeva: “Come sempre, è meglio essere specifici e fornire dettagli quando si descrivono le opinioni di individui o gruppi, piuttosto che affidarsi unicamente a etichette di comodo”.

Specchio del mondo
Qualche giorno prima il Guardian aveva affermato che il termine alt-right andava usato “solo tra virgolette e seguito, la prima volta che compare in un articolo, da una breve ma chiara descrizione dell’alt-right come un movimento di estrema destra”. I copy editor del quotidiano britannico precisavano: “Abbiamo deciso di non vietare l’uso di alt-right perché è un’espressione usata in tutto il mondo, in particolare negli Stati Uniti, ed è compito dei giornalisti descrivere e rispecchiare il mondo com’è. Detto questo, i giornalisti dovrebbero descrivere il mondo, compresa la alt-right, in modo accurato, perciò si richiede di includere una breve descrizione la prima volta che l’espressione appare in un articolo”.

Ma ad agosto del 2017, quando a Charlottesville, in Virginia, un’auto ha investito un corteo che protestava contro una manifestazione dei suprematisti bianchi uccidendo una donna di 32 anni, dalle pagine della Columbia Journalism Review è arrivato un nuovo appello a evitare del tutto il termine alt-right. “Sui mezzi d’informazione l’espressione ritorna, spesso usata come abbreviazione nei titoli o come termine onnicomprensivo per indicare i tanti gruppi che istigano all’odio confluiti a Charlottesville il 12 agosto”, ha scritto Shaya Tayefe Mohajer. “In quell’occasione i suprematisti bianchi hanno fatto vedere a tutti chi sono, chiaramente e senza scrupoli. I mezzi d’informazione devono cambiare il modo in cui raccontano questa recente esplosione di odio, collegandola alla lunga storia di violenza razziale degli Stati Uniti”. Perché, insomma, usare una parola nuova, quando si tratta di un fenomeno antico? “Abbiamo già le parole per definire i bianchi convinti che i loro diritti siano più importanti di quelli di chiunque altro. Dobbiamo avere il coraggio di usarli. Non importa come si fanno chiamare, importa che noi chiamino il razzismo e il suprematismo bianco nel modo più consono possibile ai nostri lettori e alla nostra storia”.

Dopo le violenze del 12 agosto 2017 anche l’agenzia di stampa Associated Press (Ap) ha sentito il bisogno di precisare quello che aveva già raccomandato mesi prima nella sua guida di stile, bibbia dei giornalisti statunitensi. “I fatti di Charlottesville sono un’occasione per ricordare alcune regole sull’uso di alt-right”, ha scritto sul sito dell’Ap il responsabile delle norme editoriali John Daniszewski. “Il termine dovrebbe essere evitato perché è da intendersi come un eufemismo che nasconde intenzioni razziste. Perciò va usato solo se si citano le parole di qualcuno o quando si descrive ciò che il movimento dice di sé. Va usato tra virgolette o all’interno di espressioni come la cosiddetta alt-right (senza virgolette in questo caso) oppure ‘l’alt-right’, come si definisce”.

Oggi, a cinque mesi dalle proteste di Charlottesville, il termine alt-right continua a essere usato in modo altalenante sui mezzi d’informazione in lingua inglese: a volte ha le virgolette, altre no, soprattuto quando ha funzione di aggettivo, e ormai non è più seguito da spiegazioni né da espressioni che ne segnalino il carattere improprio, e torna sempre più spesso nei titoli. Sarà perché negli Stati Uniti i gruppi suprematisti e neonazisti fanno meno paura? O perché i giornalisti hanno deciso che è ora di legittimarli chiamandoli con il nome che si sono scelti? Non sarà che a vincere sono di nuovo la pigrizia e la fretta? E i lettori? Forse hanno imparato una volta per tutte cosa si nasconde dietro l’etichetta alt-right e non c’è più bisogno di ricordarglielo.

Nel suo articolo, uscito sul Guardian, Franzen parla di Trump e dei suoi alt-right supporters, sostenitori dell’alt-right. Nel dubbio, noi abbiamo specificato “della cosiddetta alt-right”.

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