Il fotografo Ernest Cole nacque nel 1940 in Sudafrica. Con le sue foto raccontò la violenza razzista e la vita quotidiana nel suo paese. In esilio, nel 1967, pubblicò un libro House of bondage (La casa della schiavitù), che è considerato il primo e uno dei più forti atti d’accusa contro la brutalità della segregazione razziale. Morì di cancro a New York nel 1990, senza aver fatto foto per vent’anni e senza vedere i cambiamenti epocali che sarebbero presto arrivati nel suo paese.

Nel 2022, dopo il ritrovamento di migliaia di negativi originali mai pubblicati, la casa editrice Aperture ha ridato alle stampe House of bondage, con un capitolo aggiuntivo dedicato alle attività culturali e intellettuali dei neri in Sudafrica, attività portate avanti faticosamente a causa delle restrizioni imposte dall’apartheid. La speranza è che il nuovo materiale e la rinnovata attenzione verso Cole possano servire a fare luce su questo artista rimasto a lungo nell’ombra, morto in solitudine e in povertà.

Da Kole a Cole

Ernest Cole si chiamava in origine Ernest Levi Tsoloane Kole. Nel corso della sua carriera, cominciata lavorando per la rivista Drum, una pubblicazione coraggiosa e all’avanguardia, cambiò nome in Cole per farsi riconoscere come coloured sui documenti ufficiali, una classificazione – intermedia tra bianco e nero – che gli garantiva più libertà di muoversi e opportunità di lavorare nella fotografia. Alla popolazione nera, infatti, erano riservati un’istruzione molto basica e per lo più lavori manuali. Entrò a Drum come assistente di Jürgen Schadeberg e lì ebbe l’0ccasione di incontrare altri nomi illustri della fotografia sudafricana, come Alf Khumalo e Peter Magubane. Cole è anche riconosciuto come il primo fotografo freelance nero sudafricano, viste le sue collaborazioni con il Rand Daily Mail e l’Associated Press.

Cole documentò la vita e le umiliazioni quotidiane subite dai neri (al Museo dell’apartheid di Johannesburg le sue foto illustrano un’intera sezione). Nei suoi scatti vediamo uomini nudi in fila contro una parete per sottoporsi a una visita medica; neri ammanettati; bianchi che allontanano con disgusto i bambini neri; le panchine e gli sportelli bancari segregati. Una foto ci mostra l’ingresso di una miniera: sulla sinistra, c’è una fila di uomini neri di spalle, vestiti in abiti tradizionali; sulla destra, un’altra fila di neri con in mano le valigie e i fogli che attestano la fine del contratto di lavoro. L’aver lavorato in miniera segna metaforicamente un passaggio tra due mondi: gli uomini che escono sono tutti vestiti in abiti occidentali. Altre immagini ritraggono le scuole dei neri, deliberatamente prive di risorse perché l’istruzione di quella popolazione non era importante: i bambini scrivono piegati per terra, con le gocce di sudore che gli scivolano giù dalle tempie per il caldo; la loro maestra ha l’aria esausta dopo una lunga giornata di lavoro.

Con il passare del tempo e l’inasprirsi delle leggi razziste, il lavoro di Cole diventò sempre più scomodo e difficile. Scattava di nascosto – con la macchina all’altezza dell’anca o nascosta in un panino – e s’intrufolava nei posti. Fu arrestato varie volte. Il clima politico per lui si fece pesante. Hamish Crooks, ex responsabile dei diritti per l’estero dell’agenzia Magnum, attribuisce però la sua decisione di scappare – Cole era cattolico e disse che voleva andare a Lourdes – alla volontà di pubblicare un libro fotografico, emulando altri importanti fotoreporter dell’epoca.

Nel 1967, negli Stati Uniti, riuscì a far uscire House of bondage, il suo testamento e la denuncia più potente dell’apartheid, in un momento in cui le campagne di boicottaggio erano ancora lontane. Il libro fu immediatamente vietato in Sudafrica, dove circolarono di nascosto pochissime copie. Nel giro di qualche anno, però, Cole abbandonò la fotografia. C’è chi dice che cominciò a bere, e che finì a vivere per strada. Per un periodo si trasferì in Svezia. Morì di cancro il 19 febbraio 1990 a New York. Sui suoi ultimi vent’anni di vita c’è ancora un grande mistero, che forse i materiali entrati in possesso dei suoi eredi potranno aiutare a svelare.

Un tesoro nascosto

Una storia che merita di essere raccontata è anche quella del ritrovamento dei negativi. La rivista sudafricana New Frame racconta che il 10 aprile 2017 un nipote di Cole, Leslie Matlaisane, direttore della fondazione di famiglia, ricevette una telefonata dalla banca svedese Seb, che custodiva tre cassette di sicurezza e una valigia da restituire agli eredi del fotografo. All’interno c’erano sessantamila negativi, pellicole, ricevute, registrazioni audio e stampe di foto fatte da Cole negli Stati Uniti per un progetto finanziato dalla Ford foundation. Questo materiale era stato per anni nelle mani della fondazione Hasselblad, di Göterborg, per la promozione della fotografia. L’ipotesi dell’autore dell’articolo di New Frame è che negativi e stampe siano arrivate alla fondazione alla fine degli anni sessanta attraverso il fotografo svedese Rune Hassner, a cui Cole avrebbe presumibilmente chiesto di conservare il materiale, tra cui i suoi lavori che aveva portato con sé dal Sudafrica. Oggi la fondazione svedese rifiuta di restituire agli eredi cinquecento stampe, tra cui quelle realizzate per House of bondage. La battaglia legale è ancora aperta.

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