Mentre in Afghanistan è tornato il rigido regime islamico dei taliban, nel mondo arabo gli islamisti moderati sono in difficoltà. In Tunisia il partito Ennahda aveva la maggioranza in parlamento fino a luglio, quando il presidente Kais Saied ha sospeso l’assemblea e ha assunto il potere esecutivo. Un mese dopo in Marocco il Partito della giustizia e dello sviluppo (Pjd), che guidava la coalizione governativa, ha subìto una dura sconfitta alle elezioni, perdendo il 90 per cento dei seggi.
Dieci anni fa i partiti islamici erano in ascesa. Considerati più onesti di quelli tradizionali e più bravi nel fornire servizi, approfittarono delle rivoluzioni democratiche del 2011. In Egitto i Fratelli musulmani vinsero le prime elezioni libere e regolari. In Tunisia Ennahda si affermò come forza di primo piano dopo l’arrivo della democrazia. In Marocco il Pjd sarebbe stato per dieci anni il primo partito.
“Dopo le primavere arabe, queste organizzazioni sono andate al potere promettendo speranza e cambiamento”, spiega Hamza Meddeb del think tank Carnegie Middle East centre. “Ma non hanno mantenuto la promessa”.
Gli egiziani si sono presto stancati del presidente Mohamed Morsi, dei Fratelli musulmani, che è stato deposto dall’esercito nel 2013. A quel punto, Ennahda e il Pjd si sono resi conto di non poter pretendere troppo. Nel 2013, dopo una serie di proteste che hanno portato il paese sull’orlo del baratro, Ennahda ha accettato di cedere il potere e di adottare una nuova costituzione. Ma la disponibilità al compromesso è stata scambiata per opportunismo. Pur avendo solo parte della colpa, il nome di Ennahda è stato associato a un decennio di difficoltà economiche, corruzione e malgoverno. “Le concessioni alle élite e l’accettazione dello status quo hanno fatto naufragare i loro piani per l’economia”, afferma Meddeb, parlando di Ennahda e del Pjd. “Facendo compromessi con altre forze hanno fallito a livello ideologico”.
Sistemi truccati
In Marocco il Pjd non è riuscito a bloccare le leggi che depenalizzano la cannabis per uso terapeutico, che promuovono il francese nelle scuole (a spese dell’arabo) e che riformano il sistema elettorale. Nel 2020 il premier Saad Eddine el Othmani aveva detto che non avrebbe mai trattato con Israele. Poche settimane dopo Rabat ha normalizzato le relazioni con lo stato ebraico. I difensori del Pjd fanno notare che il partito ha dovuto scontrarsi contro l’istituzione più potente del paese: la monarchia. Al re Mohammed VI spettano ancora molte decisioni importanti, soprattutto in politica economica ed estera.
Il Pjd non è l’unico ad avere la sensazione che il sistema sia truccato. In Egitto i Fratelli musulmani avevano dovuto fare i conti con l’opposizione della polizia, dei dipendenti pubblici e della magistratura. In Tunisia Ennahda ha avuto più libertà di manovra ma alla fine si è scontrata con Saied. Il suo colpo di mano, palesemente antidemocratico, ha riscosso un ampio consenso popolare. Il rischio è che gli islamisti arabi ne traggano una lezione pericolosa: perché entrare in sistemi politici che non sono liberi ed equi? Perché votare per partiti che non concludono nulla?
Ahmed Gaaloul, di Ennahda, è comunque ottimista. È convinto che i gruppi della società civile tunisina difenderanno la democrazia. “Se mostrano di poter fare la differenza, non ci sarà più bisogno dell’islam politico”, dice. “Ci sarà semplicemente una democrazia amministrata da musulmani”. ◆ fdl
◆ Il 26 settembre 2021 migliaia di persone hanno protestato a Tunisi contro il presidente Kais Saied, che aveva annunciato di voler governare per decreto e di voler modificare la costituzione. Il 29 settembre Saied ha nominato una prima ministra: Najla Bouden Romdhane, la prima donna nella storia del paese a ricoprire quest’incarico.
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Questo articolo è uscito sul numero 1429 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati