Arco e frecce, alabarde, cannoni, bombe atomiche: ogni epoca inventa la sua arma meravigliosa. Ma la più potente di tutti non richiede strumentazioni tecniche. È, ovviamente, la parola. Lo era all’inizio e lo sarà alla fine. Un re che non ha chi ne racconta le gesta si perde nel flusso della storia. Al centro del romanzo d’avventura filosofico di Charles Lewinsky ci sono i contadini della Svizzera centrale nell’alto medioevo. Il libro pone la questione della teodicea dal basso, per così dire. Dio è solo un’idea del diavolo per tormentare l’umanità con un ideale irraggiungibile? Diventa subito chiaro che il libro parla anche del potere della letteratura, perché il narratore Eusebius, chiamato Sebi, dalla cui prospettiva guardiamo gli eventi, non è solo un contadino inutile per il lavoro nei campi, ma anche un inventore di storie. Sospetta che questo talento apparentemente inutile abbia i suoi usi: “Penso che se non ci fossero storie, la gente morirebbe di noia come di una malattia”. Allo stesso tempo, scopre che le cose più pazze sembrano avverarsi “se le racconti abbastanza spesso”. Così decide di diventare un cantastorie, un intrattenitore che gira per i villaggi (e non un menestrello classico). Il tono narrativo è sobrio, enfaticamente ingenuo e rustico, ma strizza continuamente l’occhio ai lettori postmoderni.

Oliver Jungen, FrankfurterAllgemeine Zeitung

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Questo articolo è uscito sul numero 1439 di Internazionale, a pagina 90. Compra questo numero | Abbonati