Il quinto album di Weyes Blood è molto simile all’ultimo di Father John Misty, Chloë and the next 20th century, uscito lo scorso aprile. A parte l’uso di titoli lunghi e colloquiali, entrambi i dischi vantano uno stile da crooner un po’ barocco e un pop classico decisamente poco naturale. A favore della cantautrice californiana, il cui vero nome è Natalie Mering, possiamo dire che in parte riesce a mettere in pratica un approccio più lungimirante e coinvolgente rispetto al suo collega. I generi di cui si nutre il disco sono l’Americana e il folk, ma lei riesce a iniettare in ognuna di queste dieci canzoni elementi più contemporanei, come frammenti di sintetizzatori, drum machine e violini elettrici. Il racconto al centro delle canzoni pesca dall’attualità, visto che il personaggio principale spera di trovare l’amore nonostante i cambiamenti sconvolgenti che avvengono intorno a lei. Le riflessioni post pandemiche più incisive le troviamo in brani come The worst is done, in cui la chitarra finge allegria e le armonie annunciano l’arrivo del Natale mentre Mering ci fa capire che, nonostante un blando sollievo collettivo, alla fine saremo più fottuti di prima. Il vibrato e la sua performance vocale rendono bene il concetto al centro di And in the darkness, hearts aglow: bisogna accettare l’incertezza e abbandonarsi a un conforto temporaneo.
Charles Lyons-Burt, Slant
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Questo articolo è uscito sul numero 1488 di Internazionale, a pagina 94. Compra questo numero | Abbonati