Gli Stati Uniti sono senza dubbio il paese che ha generato il maggior numero di immagini. Fin dall’invenzione della fotografia, gli statunitensi cominciarono a ritrarre la spettacolare varietà dei paesaggi nordamericani e a documentare la guerra. Poi sono arrivati migliaia di viaggiatori, attirati dall’immensità dei luoghi e dalle grandi città. Ci sono stati gli ammiratori o i nostalgici di Robert Frank e della beat generation, che hanno intrapreso viaggi on the road e realizzato diari personali; chi ha reso omaggio a Walker Evans e al genere documentario o chi è andato sulle tracce dei pionieri del colore. In altre parole, pochi aspetti degli Stati Uniti sono stati tralasciati. Solo gli ultimi due stati entrati nella federazione, le Hawaii – di cui si conoscono soprattutto le immagini di surf e del presidente Obama – e l’Alaska, sono sfuggiti a questa bulimia fotografica.

L’Alaska ha attirato l’attenzione di Ronan Guillou. Nato nel 1968 a Bouar, nella Repubblica Centrafricana, e morto nell’ottobre 2022 in seguito a un tumore fulminante, Guillou ha sviluppato un lavoro originale sugli Stati Uniti, che ha riunito sotto il nome di American narratives. Dopo aver cominciato nel 1997 a fotografare per la moda e la pubblicità, negli anni duemila aveva avviato una serie di progetti personali. Il libro La mort aussi bruyante que la vie (La morte tanto rumorosa quanto la vita), a cui Guillou aveva lavorato prima di morire, riunisce una selezione di foto realizzate in varie zone dell’Alaska nel corso di quattro viaggi di un mese, ognuno in una stagione diversa. Non è un ritratto dell’Alaska, ma come nei suoi lavori precedenti è un insieme di emozioni, sorprese che, seppure legate da un interesse per i fragili equilibri tra natura e società, non costituiscono un racconto lineare. L’Alaska non poteva sfuggire allo sguardo di Guillou, curioso, originale, con una solida conoscenza del colore, che ha scelto il formato quadrato per ritrarre spazi, personaggi e dettagli del quotidiano.

Nel 1867, con la speranza di ricostruire un’unità nazionale dopo la guerra di secessione che in quattro anni aveva messo in crisi il paese, il segretario di stato dell’epoca, William H. Seward, acquistò l’Alaska dalla Russia per una cifra ridicola: sette milioni di dollari, cioè meno di cinque dollari a chilometri quadrato. Solo nel 1959 però l’Alaska è diventato il 49° stato americano, il più settentrionale, il più esteso (grande il triplo della Francia), ma anche uno dei meno popolati. La sua posizione strategica (è separato dalla Russia solo dallo stretto di Bering e dal resto degli Stati Uniti dal Canada) lo ha reso un territorio molto importante durante la guerra fredda, e oggi il riscaldamento globale e lo scioglimento dei ghiacci ­­lo hanno trasformato in una regione molto ambita. In questo territorio spesso conosciuto come the last frontier (l’ultima frontiera), che porta ancora le tracce del suo passato ed è stato meta di colonizzatori e cercatori d’oro, il fotografo è riuscito a cogliere le stranezze della vita quotidiana, aspetti a volte surreali, altre misteriosi.

Una forma di calma

Il significato di queste immagini non è mai esplicito e spesso non offre risposte. Perché un cavallo di peluche è chiuso in una gabbia arrugginita? Perché un albero, al contrario di quelli che ha accanto, sembra avere la scoliosi? E dove va un uomo in smoking mentre cadono grossi fiocchi di neve?

Tutto ciò ha qualcosa di fantasioso, di cinematografico. Qualcosa che Guillou spiega in modo semplice: “Ero adolescente e senza una cultura cinematografica quando nel 1984 ho scoperto Paris, Texas. Il film di Wim Wenders mi attirava per i suoi colori, le luci, i panorami affascinanti. Ero impressionato dalla forza dell’inquadratura fissa, in particolare quando Nastassja Kinski e Harry Dean Stanton, antieroi disincantati, si scambiavano i loro silenzi nella cabina di un peep show. La musica di Ry Cooder e la fotografia dai colori accesi di Robby Müller erano delle novità. La solitudine di Travis dava ai grandi spazi che attraversava a piedi una dimensione metafisica che mi sconcertava. Con la sceneggiatura di Sam Shepard, Wenders mi trasportava in un universo inedito. Potete immaginare quindi la mia gioia quando il regista ha accettato di scrivere la prefazione di Angel, il mio primo libro. Senza sapere nulla del suo mondo, vedevo gli Stati Uniti come uno scenario di fiction a cielo aperto. Una cosa è certa, Paris, Texas ha influito sul mio destino fotografico. Una quindicina di anni dopo ho scoperto gli Stati Uniti nel momento stesso in cui mi sono scoperto fotografo”.

Un fotografo fedele alla Hasselblad, al suo formato quadrato e alla pellicola: “La fotografia su pellicola mi proietta in un’altra temporalità, in una forma di calma e di distacco. Probabilmente è anche un modo per ritualizzare l’atto fotografico. Mi piace la materialità del negativo, della sua stampa. Ho usato il digitale per dei lavori su commissione oppure occasionalmente per fotografare in condizioni di luce difficili”.

Tutto questo permette a Guillou di avere un approccio libero, in grado di catturare elementi e persone che emergono dallo sfondo bianco della neve, come la testa di una renna, una donna nuda davanti a un bosco, o un operaio in pantaloni rossi che si pulisce gli occhi con lo schizzo d’acqua che esce da un tubo. Lontano dalle mode, dalle scuole, ha sviluppato una fotografia che è come uno stile di vita, una forma di respirazione, una definizione d’identità.

“Il mio lavoro non è un reportage sugli Stati Uniti o sull’Alaska. Cerco di mescolare stile documentario e racconto personale. Fotografare esperienze potrebbe essere una definizione del mio modo di lavorare con gli esseri umani, le forme, i colori, la luce e gli spazi. Mi attira l’ignoto, mi guida l’intuizione, e ovviamente quest’ultima fa affidamento sul caso. Nella fotografia vedo un modo di vivere liberamente. Oltre a proporre uno sguardo sul mondo, la fotografia permette alla curiosità di esprimersi, legittima la tua presenza là dove vuoi andare, soddisfacendo il desiderio di avventura. Nel film Alice nelle città, Wenders fa dire al personaggio Philip Winter che fotografare è cercare la prova della propria esistenza. Mi ritrovo in questa formula, perché considero la fotografia come una ricerca di significato, dove l’osservazione dell’esterno apre la via all’introspezione. Talvolta il mio modo di lavorare può alterare la coerenza con cui mi avvicino a un soggetto, perché spesso mi lascio andare alla digressione. Penso comunque che la coerenza vada cercata nel tempo, nell’unità dei punti di vista”. ◆ adr

Da sapere
Il libro

◆Il libro La mort aussi bruyante que la vie è uscito nel 2023 per la casa editrice Le bec en l’air. Ronan Guillou ha pubblicato altri due libri: Angel, con una prefazione del regista Wim Wenders (Transphotographic Press 2011), e Country limit, con testi del docente di storia della fotografia Michel Poivert e del critico Bill Kouwenhoven (Kehrer 2015).


Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1540 di Internazionale, a pagina 70. Compra questo numero | Abbonati