“La risposta di Teheran al bombardamento israeliano a Damasco del 1 aprile conferma che la questione palestinese non può essere ignorata, mentre le alleanze regionali sono variabili e volatili”, scrive su Al Araby al Jadid Ahmad Jamil Azem, che insegna relazioni internazionali alla Birzeit university, in Cisgiordania. Secondo Azem, da decenni Israele usa l’Iran per distogliere l’attenzione dalla questione palestinese: “Gli israeliani invocano la minaccia iraniana e sciita per giustificare una normalizzazione con i paesi arabi”. L’attacco israeliano del 1 aprile, in quest’ottica, è servito a distrarre l’attenzione della comunità internazionale da quello che sta succedendo a Gaza e a ripristinare il sostegno a Israele in un momento in cui crescevano le critiche sulle sue operazioni nella Striscia e in Cisgiordania.
Azem aggiunge che lo scontro con Israele è uno dei pilastri dell’ideologia del regime iraniano e un elemento di legittimità interna ed esterna. Ma, continua, la politica di Teheran nei confronti di Israele è governata da regole precise: “L’Iran preferisce le guerre per procura e se sarà costretto a un’escalation sceglierà uno scambio di attacchi calcolati che non portino a un conflitto globale”.
Azem analizza inoltre la posizione dei paesi arabi, che “si sono trovati ancora una volta a fare da spettatori di una scena dominata da Iran, Israele e Stati Uniti”. E riflette sulle possibili mosse di Washington “che è consapevole del fatto che le politiche israeliane la stanno trascinando in dilemmi pericolosi”. L’amministrazione statunitense però “è ancora governata da vecchi interessi e subisce le pressioni delle lobby israeliane. Proverà a frenare la risposta israeliana, fornendo a Netanyahu una scusa per non rispondere con la forza”.
Negli ultimi mesi, conclude Azem, è diventato chiaro che “senza risolvere la questione palestinese non diminuiranno le tensioni regionali e non ci sarà la normalizzazione tra Israele e i paesi arabi”.
Equilibrio tra interessi opposti
Sul sito tedesco Deutsche Welle Cathrin Schaer commenta le azioni della Giordania e di altri paesi arabi: “Amman ha aperto lo spazio aereo agli apparecchi israeliani e statunitensi, avrebbe inoltre abbattuto alcuni droni”. Anche gli stati del Golfo, tra cui l’Arabia Saudita, hanno giocato un ruolo indiretto, perché ospitano sistemi di difesa aerea occidentali, di sorveglianza e rifornimento che sembra siano stati fondamentali nell’operazione.
Alcuni osservatori hanno apprezzato il coinvolgimento arabo perché dimostra che arabi e israeliani possono lavorare insieme. Schaer osserva che in realtà Amman ha dovuto trovare un equilibrio tra interessi opposti, la stabilità politica e l’autodifesa: “In Giordania un abitante su cinque è di origine palestinese, compresa la regina, e nelle ultime settimane ci sono state proteste molto accese contro Israele. Al tempo stesso, il paese condivide un confine con lo stato ebraico, è custode della moschea Al Aqsa di Gerusalemme e collabora regolarmente con le autorità israeliane. Amman ha dichiarato che aiutando Israele stava in realtà difendendo se stessa”. Emile Hokayem, dell’International institute for strategic studies, ha detto a Schaer che il coinvolgimento giordano è stato in parte “un modo per dimostrare di essere un buon alleato degli Stati Uniti”.
Anche l’Arabia Saudita ha dovuto trovare un equilibrio tra i suoi interessi, le alleanze internazionali, la realpolitik e le apparenze, conclude Schaer: “Prima degli attacchi del 7 ottobre il paese del Golfo era sul punto di normalizzare le relazioni con lo stato ebraico. Ora quei piani sono stati congelati, ma fonti vicine alla monarchia ammettono in privato che i sauditi sono ancora interessati a migliorare le relazioni con Israele”. ◆ cat, fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1559 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati