Negli ultimi giorni si sono intensificati i combattimenti tra l’esercito e i paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf) intorno ad Al Fashir, capoluogo dello stato del Darfur Settentrionale e ultima città nell’ovest del Sudan a sfuggire ancora al controllo delle Rsf. Si stima che ad Al Fashir più di 800mila persone siano in pericolo. Il 10 maggio le Nazioni Unite hanno registrato 27 morti e 130 feriti, mentre due giorni dopo una bomba è scoppiata vicino a un ospedale pediatrico, facendo crollare il tetto della terapia intensiva e uccidendo due bambini ricoverati e un dipendente. Il gruppo britannico Sudan Witness, scrive l’Associated Press, avverte che nel mese di aprile sono aumentati i villaggi e gli insediamenti distrutti dagli incendi, in particolare nelle aree a nord e a ovest di Al Fashir, denunciando l’uso del “fuoco come arma di guerra”. Il ministero degli esteri, legato all’esercito, si è scagliato contro la comunità internazionale, accusata di aver fallito in Darfur, scrive Sudan Tribune. Un recente rapporto dell’ong Human rights watch attribuisce alle Rsf – che godono del sostegno degli Emirati Arabi Uniti – la responsabilità di una “pulizia etnica” nel Darfur Occidentale, in particolare contro la popolazione masalit.
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1563 di Internazionale, a pagina 26. Compra questo numero | Abbonati