Lawrence Osborne (Leonardo Cendamo, Getty)

A Beirut Lawrence Osborne conosce Jacques Tabet, il gestore di bar più ruvido e generoso della città. Mentre gli versa un drink dietro l’altro gli dice: “Odio la sobrietà. È uno stato che mi irrita e sono certo che irrita anche te. Se fossi rimasto senza bere tutti questi anni non sarei sopravvissuto”. Osborne nota anche che nel bar di Tabet è permesso fumare: “Un bar per adulti, dunque, non per bambini moralisti urlanti”. Si può immaginare che a Beirut, durante la guerra civile, un bicchierino o due per sollevare il morale fossero stati la norma. Ma la cosa che interessa di più Osborne è la vicinanza con il mondo musulmano. Sebbene in questo libro si parli di bar di tutto il mondo – a cominciare dal Town House Galleria a Milano dove un gin tonic costa 40 euro –, si torna sempre al divieto islamico di bere alcolici e ai tentativi che si fanno nei vari paesi per eluderlo. L’idea, l’autore se lo dice ad alta voce una sera, è smettere di bere per capire se i non bevitori hanno qualcosa da insegnargli davvero, anche se passa gran parte del tempo a cercare un posto qualunque in cui bere qualcosa. Qualunque cosa, basta che sia in grado di dargli quella botta. Tra i pericoli che corre il protagonista non ci sono solo multe o punizioni da parte delle autorità ma anche essere fatto a pezzi da una bomba fatta esplodere da un terrorista in Indonesia. In realtà l’obiettivo dei jihadisti sembra essere più lo sportello bancomat lì accanto che il bar. Osborne è un maestro di bello stile. In questo senso la sua prosa ricorda i tentativi che fanno gli ubriachi quando vorrebbero passare per sobri. Il bevitore, scrive Osborne, “è intriso di autocritica, è un profondo conoscitore dei propri stati di alterazione, sa esattamente come regolare i suoi alti e i suoi bassi”. Si scopre che Osborne è un ubriacone impenitente, felice (per così dire) di definirsi un alcolista. È ben cosciente che la sua ubriachezza può portarlo ad azioni terribili o vergognose, che molto probabilmente non sarà in grado di ricordare la mattina dopo. Santi e bevitori ci risparmia l’autoflagellazione di quei memoir dolenti sulle dipendenze che ormai hanno stancato un po’ tutti. E non si può negare che il suo viaggio, per quanto folle e sconsigliabile, sia molto divertente da leggere.
Nicholas Lezard,
The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1570 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati