Questo romanzo è una lunga apologia che il protagonista Erik Schroder scrive alla moglie Laura per giustificare in qualche modo il rapimento della loro figlia di sei anni. C’è qualcosa di Humbert Humbert in Erik e lascia nel lettore il sospetto che la storia di un uomo che rapisce la sua bambina possa solo prendere una piega cupa. Eppure il personaggio creato da Gaige è un uomo solitario e pieno di fantasie ma del tutto inoffensivo. Schroder non è un rapitore ma un buon papà nel bel mezzo di una brutta causa per l’affidamento della figlia: non è machiavellico, solo sconsiderato. Soprattutto però deve cominciare a spiegare alla moglie, che lo conosceva come Eric Kennedy, perché in realtà è un tedesco di nome Erik Schroder. Qualcosa di oscuro scorre sotto la pelle di questo narratore: non è quello che temiamo sia ma nemmeno il bonaccione che vorrebbe apparire. Mentre lentamente comprendiamo la sua personalità nascosta e il vuoto interiore che nasconde cominciamo a temere sia per lui sia per la figlia, Meadow, e non solo perché lei lo ama teneramente. È una bambina stoica, testarda, con diverse tracce di un altro personaggio memorabile della letteratura statunitense: Phoebe, la sorellina del protagonista del Giovane Holden. Schroder confida per la prima volta la verità a Meadow ed è a lei che osa raccontare il suo passato. Se lui potrà mai essere perdonato o se si riconcilierà con ciò che ha fatto è una domanda che continua a risuonare fino all’ultima pagina.
Sadie Jones, The Guardian

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Questo articolo è uscito sul numero 1586 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati