La preda, romanzo del 1995 dello scrittore sudafricano Damon Galgut, è probabilmente il suo libro migliore. Parla di un uomo senza nome, in fuga, che incontra e uccide un sacerdote che stava per insediarsi in una nuova parrocchia. Ruba tutti i suoi vestiti, ne adotta l’identità e si presenta alla sua comunità come il nuovo parroco. Appena arriva lì scopre che il suo primo compito da prete sarà quello di seppellire l’uomo che aveva ucciso. Siamo nel Sudafrica degli anni novanta e dunque del delitto vengono accusati due uomini neri (bizzarramente chiamati Valentine e Small) e il romanzo prende la forma e il ritmo di un thriller. Il punto di vista rimbalza tra Valentine, l’uomo e il poliziotto chiamato a indagare mentre i capitoli si fanno via via sempre più brevi fino alla conclusione che ci arriva addosso a tutta velocità. Damon Galgut scrive con la semplicità di J.M. Coetzee – ogni frase spicca e sembra piena di significato – e la gravitas ritmata e biblica di Cormac McCarthy, ma l’effetto generale è quello di una grande ambivalenza. Nel drammatico confronto finale non è neanche ben chiaro di quale dei tre uomini coinvolti stiamo parlando. Questo effetto di straniamento e di alienazione è sicuramente voluto dallo scrittore – nei suoi lavori successivi vediamo bene come Galgut ami confondere il lettore e sfumare le cose – ma aggiunge una nota di frustrazione a questa originale e intensa parabola sulle storture della giustizia.
John Self, The Sunday Times
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1597 di Internazionale, a pagina 84. Compra questo numero | Abbonati