Nel bel mezzo di questo libro attento, scritto con dolcezza e potenza, la narratrice siede nel fatiscente cinema di paese che ha comprato – contro ogni logica – in un villaggio nel sud-est dell’Ungheria, proprio al confine con la Romania. Sono momenti di pace. Si siede lì e osserva i cambiamenti della luce estiva nel corridoio. La stanza è cadente, le pareti sono ammuffite. L’odore, be’, è quello di un cinema abbandonato. Tre impiegati comunali trascinano dentro, arrotolato, il vecchio schermo su cui erano proiettati i film ai tempi d’oro di quella sala. In paese tutti chiedono quando riaprirà il mozi, “cinema” in ungherese. Esther Kinsky invoca costantemente l’estetica del cinema, ne segue le tracce, ne legge i simboli, ma il suo racconto ci rende sempre più consapevoli che non possiamo più far parte di questo incanto se non nei nostri ricordi o nelle fantasie che ci riportano al presente: è una magia perduta. Di luce e polvere crea uno spazio per queste fantasie. Quella tela che i tre uomini trascinano nel mozi dopo tanti anni è marcita, proprio come le altre attrezzature che la narratrice e Józsi, il vecchio proiezionista, stanno provando per usarle in futuro. Alla fine decideranno di proiettare su un muro imbiancato. E la riparazione delle vecchie attrezzature, in quella remota provincia ungherese, diventa una piccola odissea. La prosa di Kinsky è limpida e riflessiva ed evoca il cinema come espressione poetica di un rapporto con il mondo ormai irrecuperabile.
Paul Ingendaay, Frankfurter Allgemeine Zeitung
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Questo articolo è uscito sul numero 1609 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati