Su un lontano pianeta coperto di foreste e abitato da una popolazione primitiva e pacifica arrivano i terrestri. E sono lì per conquistare e saccheggiare. Nel Mondo della foresta (1976), l’amministrazione coloniale guidata da forze militari battezza il pianeta New Tahiti e comincia a deforestare senza pietà perché sulla Terra ormai il legno è venduto al prezzo dell’oro. I terrestri riducono in schiavitù un certo numero di abitanti della foresta che chiamano ironicamente creechie. La storia segue il capitano Davidson, il capo di uno degli avamposti, che si definisce un “vecchio conquistador”; Luyobov, uno scienziato comprensivo che studia i creechie e che rassicura gli ufficiali coloniali che i creechie non conoscono il concetto di omicidio; e Selver, un ex abitante della foresta ridotto in schiavitù che fugge per avvertire il suo popolo che, per la prima volta, la loro stessa esistenza è in pericolo. Scritto durante la guerra del Vietnam, questo è uno dei commenti più espliciti di Le Guin sull’imperialismo statunitense e sulla crisi ambientale. E questo romanzo è più rilevante che mai oggi. Le giungle di New Tahiti sono un sistema naturale antichissimo e profondamente interconnesso, con poche difese visibili. I terrestri sono accecati dalla spavalderia e dalla fede nelle loro armi — “Proteggono più le loro armi che i loro corpi”, osserva Selver — e Davidson e i suoi uomini sottovalutano la forza segreta dei piccoli, apparentemente indifesi abitanti della foresta.
Shreya Chattopadhyay, The New York Times

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Questo articolo è uscito sul numero 1609 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati