
Questo libro è il prodotto dell’ostinata e irrimediabile fascinazione di una donna (“Una cotta brutale”, la chiama l’autrice) per la vita di un’altra donna. Silvia Labayru fu rapita a 19 anni nel dicembre 1976 durante la dittatura argentina. Fu incarcerata nella scuola superiore di meccanica della marina, in cui entrò incinta di cinque mesi. Oggi la scuola è un luogo delle commemorazioni a Buenos Aires, ma allora era un centro di detenzione dell’esercito dove venivano torturati i seguaci della rivoluzione armata peronista, quasi tutti di buona famiglia, come lei, ma anche studenti, artisti e religiosi. La vicenda è raccontata magistralmente, anche se non in modo sempre coerente. È una storia che emerge, fluisce, spunta fuori in innumerevoli conversazioni piene di digressioni, distratte, umoristiche, allegre, tragiche, imbarazzanti, crude, ripetitive e inaspettate. Nessuno dei narratori (amici, conoscenti, figli), e Leila Guerriero meno di tutti, cerca un ordine, e questa è una caratteristica brillante di un libro intriso di vita ed esperienza reale. Il formato del diario in progress (e i dettagli dell’ambientazione, dell’abbigliamento e dell’atmosfera) danno al testo un’immediatezza vibrante che ci consente di apprendere e capire la storia di vite danneggiate e redente, mentre l’autrice, con note vivide e disarmanti, presenta in ogni pagina un nuovo indizio per venire a capo di questo episodio profondamente traumatico e disumanizzante. I personaggi sono quasi tutti argentini, quindi c’è parecchia psicoanalisi e gergo lacaniano incomprensibile: voglio aggiungere questa nota umoristica perché questo è un libro che spesso fa ridere, o almeno sorridere, perché la vita qui sembra essere più di una semplice forma cronica di tragedia prolungata. Silvia Labayru non solo è sopravvissuta ma ha fatto condannare per stupro due dei militari che l’avevano sottoposta a un anno e mezzo di torture e abusi che gli altri (la sua famiglia, i suoi familiari e i suoi compagni di lotta, quasi tutti uomini) hanno interpretato come esempi di collaborazionismo o addirittura di sindrome di Stoccolma. La chiamata riesce a fare luce, anche senza prendere posizione, sulle contraddizioni di un momento storico traumatico attraverso una formidabile immersione nella vita di una donna e nel suo ambiente.
Jordi Gracia, El País
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Questo articolo è uscito sul numero 1609 di Internazionale, a pagina 92. Compra questo numero | Abbonati