“Molti anni dopo, di fronte al plotone di esecuzione, il colonnello Aureliano Buendía si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio in cui suo padre lo aveva condotto a conoscere il ghiaccio. Macondo era allora un villaggio di venti case di argilla e di canna selvatica costruito sulla riva di un fiume dalle acque diafane che rovinavano per un letto di pietre levigate, bianche ed enormi come uova preistoriche”.
Qualsiasi amante della letteratura riconoscerà l’incipit del romanzo più rappresentativo dell’America Latina. Una regione che da quando nel 1967 fu pubblicato Cent’anni di solitudine è stata percepita in modo diverso. Il capolavoro di Gabriel García Márquez non riuscì solo a descrivere una cultura di superstizioni creative, liturgie amorose e mondi confusi, ma anche a portare sulla mappa Macondo, il villaggio immaginario verso cui puntano le bussole del famoso realismo magico.
Nel decimo anniversario della morte di Gabo seguiamo le tracce delle farfalle gialle fino ad Aracataca, il seme da cui è germogliato Macondo, che sospira nel mezzo della foresta colombiana.
Alle nostre spalle resta il mar dei Caraibi. La chiva, l’autobus colorato tipico delle zone rurali della Colombia, scivola lungo una strada che si snoda in mezzo ai tropici. Ci sono tre bambini in bicicletta, una donna wayuu seduta al mio fianco che profuma di terra bagnata e una farfalla gialla sul finestrino. Durante i 79 chilometri che separano Aracataca dalla città di Santa Marta il paesaggio cambia: le cime delle montagne della sierra Nevada ci osservano da lontano mentre c’immergiamo in un mare di piantagioni di banane i cui colori si confondono con le uniformi dei militari. A un certo punto tra gli alberi spunta un enorme murale di Gabriel García Márquez per darci il benvenuto.
Aracataca è sempre stata Macondo, quel villaggio a ovest della città di Riohacha separato da una catena montuosa quasi impenetrabile. In queste confuse coordinate sta il suo mistero, il suo essere rifugio dai grandi circuiti turistici dei Caraibi colombiani. Chi viene qui lo fa perché ha amato l’opera di García Márquez e vuole rievocare il realismo magico che ha ispirato tante storie.
I mobili originali
Il villaggio dov’è nato Gabo il 6 marzo 1927 potrebbe essere uno come tanti: le famiglie che fanno grigliate in riva al fiume Aracataca, sulle cui sponde si leggono citazioni del premio Nobel, i binari del treno che sussurrano storie di vecchie conquiste e una guida turistica itinerante che si offre di accompagnarmi a visitare i luoghi più significativi. La prima tappa è il museo nella casa natale dello scrittore. Per entrare non bisogna pagare, ma si può lasciare un’offerta alle guide che non esiteranno ad accompagnare il visitatore nelle sue passeggiate tra le parole. Un luogo unico, inaugurato nel 2010, dove rimane parte dell’arredamento originale, oltre a vari frammenti di testi e murales legati allo scrittore. La casa è suddivisa in diversi spazi i cui nomi furono approvati dallo stesso Márquez. I mobili ci riportano a tante pagine amate, la culla è ancora lì e immaginiamo la nonna Tranquilina Iguarán sulla sedia a dondolo che racconta vecchie storie a un futuro scrittore.
Uscendo si scopre che tutta Aracataca è un omaggio allo scrittore colombiano, con biblioteche e barbieri che portano il suo nome, e monumenti: tra questi la tomba di Melquíades, il gitano del circo itinerante che affascinava la famiglia Buendía, o la casa del telegrafista, dove il padre di García Márquez, Gabriel Eligio, avrebbe conosciuto la moglie, Luisa Santiaga Márquez. Un incontro che avrebbe ispirato anche L’amore ai tempi del colera.
In una stradina trovo la biblioteca di Remedios la Bella, descritta in Cent’anni di solitudine come “la creatura più bella che si fosse mai vista a Macondo”. La guida a un certo punto scompare, il suono di una macchina da scrivere avvolge la chiesa di San José e il trambusto invade la strada dei Turchi, quel luogo descritto nel romanzo dove gli arabi arrivati a Macondo scambiavano cianfrusaglie con pappagalli. Alla fine tutte le vie di Aracataca sembrano portare ai binari del treno, ancora inutilizzati in attesa dell’approvazione della strada turistica di Macondo, un servizio ferroviario che dovrebbe collegare Aracataca e Santa Marta.
Poi c’è la romantica Cartagena de Indias, la città costiera di Riohacha dove avvenne l’omicidio di Cronaca di una morte annunciata; o Barranquilla, la città dove l’autore cominciò a scrivere Foglie morte, nel 1950. La geografia gabista straripa di luoghi sparsi ovunque nel nord della Colombia, ma tutto è cominciato in questa cittadina di quarantamila abitanti dove il legame con il figliol prodigo diventa un legame con il mondo (e con il turismo).
A metà pomeriggio le formiche camminano ancora sui muri, il destino di Ursula Irguarán è scritto. Risalgo sulla chiva, c’immergiamo nelle piantagioni di banane. Un’altra donna wayuu è salita a metà strada e dei bambini in uniforme bianca e rossa mi salutano da lontano. Ci allontaniamo, lasciandoci alle spalle il regno dove magia e realtà si confondono. Solo a quel punto la farfalla gialla appollaiata sul finestrino decide di volare via. ◆ fr
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Questo articolo è uscito sul numero 1563 di Internazionale, a pagina 76. Compra questo numero | Abbonati