Anna, una ragazza che potrebbe essere mia figlia e che incontro sulla via per Venezia, mi dice con un sorriso radioso: “Io non mi vesto, mi travesto. Mi piace decidere al mattino chi voglio essere, e così ogni giorno cerco uno stile che si addica al personaggio che sto immaginando”. Come siamo cambiati, penso: la mia generazione si vestiva per affermare la propria identità, mentre i ragazzi di oggi si travestono in cerca di appartenenze gioiosamente passeggere, come case mobili in cui abitare per un po’. Simone Weil in Venezia salva scrive: ogni epoca vive, senza saperlo, il sogno del vincitore che l’ha preceduta. Crediamo di essere nel presente, e invece viviamo nell’epoca sognata da chi ha vinto. Penso allora che i ragazzi di oggi vivono nell’epoca sognata da chi voleva la globalizzazione dell’economia. Eppure dei semi imprevisti germogliano: i padroni della Terra non avevano calcolato che globalizzando il mercato avrebbero anche globalizzato una generazione. E questa generazione ora nuota libera e sa che l’uguaglianza non va dimostrata, perché è un’evidenza. Sa benissimo, per una sorte paradossale, che le differenze sono ciò che rende uguali, sono costumi temporanei nel carnevale della vita. E mentre i governi si affannano a cercare nei programmi scolastici e nelle linee culturali segni di divisione e patriottismo, i ragazzi li guardano con un sorriso beffardo, globale se non cosmico.

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Questo articolo è uscito sul numero 1578 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati