La cosa che più colpisce delle elezioni amministrative del 5 maggio nel Regno Unito è quello che non è successo: i conservatori sono stati sconfitti a Londra, in Scozia e altrove, ma non hanno subìto il catastrofico tracollo che avrebbe affossato il primo ministro Boris Johnson.
Per i tory il risultato è pessimo. In tutto il paese ci sono molti conservatori delusi, risentiti e arrabbiati con Johnson, convinti che sia arrivato il momento di cambiare. Ma il primo ministro è un colosso con i piedi ben piantati a terra, e solo una valanga elettorale avrebbe potuto farlo fuori. Invece ci sono stati solo brontolii. E molti elettori hanno deciso di non andare a votare.
La domanda è: perché non c’è stata la valanga? In fondo il paese sta attraversando una grave crisi economica, che rende difficile perfino pagare le bollette, e lo scandalo delle feste organizzate da Johnson durante il lockdown è ancora relativamente fresco nella testa delle persone. Contro un governo così, in un momento così, i partiti d’opposizione si aspettavano di sicuro una serata più esaltante.
La mia prima risposta è che per gli elettori britannici delle classi medio-basse del centro e del nord Johnson è ancora il primo ministro che ha fatto uscire il Regno Unito dall’Unione europea. Magari sono delusi dal suo comportamento, ma gli sono ancora legati. Intanto nel paese si allargano le fratture geografiche già evidenziate dalle elezioni legislative del 2019. Sembra non esserci più un partito in grado di rivendicare un ruolo egemone in tutto il Regno Unito. La Scozia e Londra continuano a esprimere posizioni nettamente anti-conservatrici, in parte come conseguenza della Brexit. Le aree dell’Inghilterra del sud tradizionalmente conservatrici ma contrarie alla Brexit (il cosiddetto muro blu) oggi sembrano sensibili al messaggio di liberaldemocratici e verdi. Lentamente e in modo caotico, il paesaggio politico britannico si sta frammentando sempre più. E l’appartenenza geografica conta ormai quasi quanto quella di classe.
Dinamismo e intraprendenza
Per il futuro del paese, tutto questo è più rilevante di qualsiasi sviluppo immediato, anche in merito alla sorte di Johnson. È vero che il primo ministro potrebbe trovarsi alle strette in parlamento, ma i deputati potrebbero continuare, come hanno fatto finora, a non metterlo sotto accusa. Johnson, inoltre, ha ancora qualche carta da giocare. Dirà che il cosiddetto muro rosso, cioè le circoscrizioni elettorali del nord e del Galles tradizionalmente laburiste, ha tenuto, e i suoi consiglieri borbotteranno qualcosa a proposito del prossimo rimpasto. Tuttavia le tre elezioni suppletive per la camera in programma a giugno avranno conseguenze più gravi di quelle prodotte da questo voto.
D’altro canto, non sembra nemmeno che gli elettori abbiano grande fiducia nel leader laburista Keir Starmer, o che lo ritengano capace di risolvere le difficoltà economiche e sociali del paese. Quanto al problema della sua mancanza di calore ed empatia c’è poco da fare. Starmer è un uomo onesto, meticoloso e al servizio del bene comune: nella vita pubblica c’è bisogno di persone come lui. Tuttavia non ha il carisma e le capacità retoriche ed emotive di Johnson. Queste qualità, ammesso che lo siano, dovrebbero essere poco importanti. Ma nella nostra chiassosa politica hanno sicuramente un peso.
Sotto questo profilo i laburisti potrebbero fare certamente di meglio. Il fatto che non siano riusciti a presentare un’alternativa coerente e credibile alla fallimentare “dichiarazione di primavera” (uno dei documenti di programmazione economica del paese) del ministro delle finanze Rishi Sunak è un grave smacco politico. Alcuni sostengono che non debbano “mostrare le loro carte” con tanto anticipo rispetto alle legislative (in programma nel 2024) per non prestare il fianco al contrattacco dei conservatori. Ma credo sia un errore. I partiti d’opposizione devono cominciare a catturare l’immaginario pubblico molto prima dell’inizio formale della campagna elettorale. Negli anni novanta Tony Blair lo capì perfettamente. Oggi il partito di Starmer dovrebbe offrire ai britannici una chiara alternativa. Se c’è un dato che emerge dai risultati di queste elezioni amministrative è che non basta limitarsi a criticare le politiche del governo e denunciarne i comportamenti scorretti. Bisogna creare una specie di eccitazione mentale. Servono dinamismo, intraprendenza ed entusiasmo.
Nessuno è uscito vincitore dal voto del 5 maggio. Per i tory il dilemma su cosa fare con Johnson si è fatto ancora più difficile. Quanto ai laburisti, il sospetto che manchino di idee e di iniziativa comincia a sembrare fondato. Di certo, la seconda metà di questa legislatura sarà più dura e più interessante della prima. ◆ ff
Andrew Marr è un giornalista e presentatore radio e tv britannico. È responsabile delle pagine politiche del New Statesman.
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Questo articolo è uscito sul numero 1460 di Internazionale, a pagina 25. Compra questo numero | Abbonati