È già passato un anno. Ero al mare e stavo nuotando la mattina in cui tutto è cominciato. Quella che credevo sarebbe durata qualche giorno è diventata una guerra feroce e intensa. Quando il 7 ottobre 2023 sono andato alla sede della Press house, in un quartiere benestante della città di Gaza, per seguire le notizie con il direttore Bilal Jadallah e due amici giornalisti, Ahmad Fatima e Mohammad al Jaja, nessuno di noi avrebbe immaginato che sarebbe durata un anno.

Per chi ha vissuto direttamente questa guerra, non è stato solo un anno. Sono stati 365 giorni, sono state 8.760 ore, sono stati 525.600 minuti, sono stati 31 milioni e 535mila secondi. Ogni secondo è importante: si può essere vivi un secondo e dilaniati quello dopo. La vita non è la stessa da un’ora all’altra. A ogni battere di ciglia ci si ritrova in un istante nuovo, in un punto diverso del massacro. Questa è l’esperienza più dura, perché ogni momento è dedicato alla lotta per la sopravvivenza.

Vivere significa inventarsi un modo per ingannare la morte. Significa cercare da mangiare e da bere; restare svegli tutta la notte e pensare a tutte le situazioni in cui un missile potrebbe colpirti; significa pianificare di coprire tuo figlio con il tuo corpo per proteggerlo dalle schegge; trasportare gli arti amputati dei tuoi cari; seppellire parti di un tuo amico mentre lui grida, chiedendoti di scrivere: “Qui giace il braccio di Mahmoud”. Significa convivere con tutto questo e chiederti ogni mattina se sei sveglio o sei morto nella notte. Significa chiederti costantemente se le persone intorno a te non siano davvero vive come sembrano. Significa chiedersi: se nulla di tutto questo è reale, se è solo un incubo, come posso interromperlo?

Per tante persone nel mondo la guerra a Gaza è solo l’ennesima notizia. Ma noi che l’abbiamo vissuta non ricordiamo altro, non pensiamo ad altro. Se qualcuno quella mattina ci avesse detto che la lussuosa villa in cui si trovava la Press house sarebbe stata ridotta in macerie, e che tre di noi su quattro sarebbero stati uccisi (Jadallah il 19 novembre, Fatima una settimana prima, e Al Jaja pochi giorni prima), nessuno di noi ci avrebbe creduto.

Anche i giornalisti come Jadallah, che avrebbero dovuto raccontare le notizie, sono diventati notizia. Jadallah ascoltava ogni bollettino per poter mettere al sicuro la sua famiglia, trasferendola da una parte all’altra della città in anticipo su ogni manovra. E ci è riuscito. Ma non ha potuto proteggere se stesso. È diventato uno dei 174 giornalisti uccisi finora nella guerra.

Molte cose da fare

Io ho passato un mese e mezzo nelle tende vicino a Rafah. Per due notti non ho avuto neppure una tenda in cui dormire. Una notte ho dormito per strada accanto alla mia auto, mentre le esplosioni mi rimbombavano intorno; era troppo pericoloso guidare. Un’altra volta sono stato ferito alla gamba da una scheggia. Ma ora penso che io e mio figlio siamo stati estremamente fortunati. Non siamo stati uccisi come le 135 persone della mia famiglia allargata. Sono fortunato ad avere ancora le mie gambe e solo una cicatrice di cinque centimetri su una delle due. Sono stato fortunato a sopravvivere e a poterne parlare oggi.

Ripensando agli 84 giorni d’inferno che ho vissuto, mi sembra che il mondo stesso è cambiato, inesorabilmente. Ogni giorno affacciandomi sulla città sapevo che il giorno dopo non sarebbe stata uguale. Ho visto uccidere la città, non solo le persone. Ho visto come è diventato impossibile progettare qualcosa, avere la minima autonomia, essere un individuo funzionante. Ho visto come l’unico obiettivo delle persone è diventato arrivare al tramonto, e ogni notte arrivare all’alba. E oggi, dopo un anno, non riesco a smettere di pensarci. Temo l’arrivo di altre notizie: la morte di un altro familiare o di un altro amico, la morte di altri ricordi.

Come si può vivere “normalmente” dopo aver sperimentato tutto questo orrore?

Quando la guerra finirà, tornerò a Gaza. Ci sono molte cose da fare. Mia moglie, Hanna, vuole seppellire sua sorella, uccisa con il marito e i due figli. Sta pensando di trasferire la tomba di sua madre da Rafah a Jabalia. Sua madre è morta nella tenda a Rafah poche settimane dopo la mia partenza ed è stata seppellita in un luogo qualunque. Io devo visitare la tomba di mio padre, morto tre mesi dopo che ho lasciato il nord. Si è rifiutato di fuggire. Devo trovare un posto in cui possa vivere tutta la famiglia, dopo la distruzione della nostra casa. Anche la casa dei genitori di Hanna deve essere ricostruita in modo che suo padre possa avere un posto dove stare. Il lavoro più grande sarà affrontare il lutto. Prenderci un momento per pensare a tutti quelli che non ci sono più. Piangerli come si deve. Poi, forse, si potranno ricostruire alcuni ricordi. Ma la guerra finirà? A volte me lo chiedo. Fino ad allora, non c’è niente da fare. Solo aspettare.

Una mia amica, che ha partorito nel primo mese della guerra, è terrorizzata all’idea che il figlio dirà le prime parole in una tenda. Teme che possano essere “buuuuum”, il suono di un missile israeliano, o “tenda”, invece di “papà” o “casa”. Quando il bambino ha cominciato a gattonare, lei ha pianto. Invece di farlo nel giardino della loro grande casa a Gaza, si aggrappava ai tiranti della tenda. Questi sono i ricordi che lui e la madre avranno dei suoi primi anni. Solo se la guerra finirà e tornerà a una vita normale queste cose indegne saranno sradicate dalla sua memoria. Ma come si può vivere “normalmente” dopo aver sperimentato tutto questo orrore? Dopo aver visto i corpi di parenti, vicini e amici fatti a pezzi? Le persone di Gaza hanno sogni modesti. Sogni che non costerebbero nulla al mondo. Vogliono vivere come prima della guerra. Rivogliono le loro vite.

Mia sorella Eisha desidera tornare a casa sua nel nord di Gaza. Ma per ora è un’ambizione troppo grande. Spera solo di non essere sfollata di nuovo. Non è contenta della sua vita in una tenda, delle centinaia di metri che deve percorrere per andare a lavare i piatti in mare. Non è contenta delle ore trascorse davanti a un forno di argilla a cuocere il pane. Ma anche queste difficoltà sono diventate normali. Due mesi fa, quando i carri armati sono arrivati nella parte del campo in cui stavano, ha dovuto svegliare i suoi tre bambini e scappare verso la spiaggia. Hanno passato la notte ascoltando il fragore delle onde e le esplosioni delle cannonate, fin quando al mattino l’esercito si è ritirato.

Due giorni fa è riuscita a collegarsi a internet. È stata contenta di potermi fare una videochiamata e di mostrarmi la sua tenda. Ho visto tre ripiani, stipati di cibo in scatola, cinque materassi, accatastati uno sopra all’altro, e due taniche d’acqua.

Ignorare il senso di colpa

Tutto diventa normale. Poi la situazione peggiora, e anche questa diventa normale. Le persone si trovano a rimpiangere la loro vita prima della guerra. Condividono immagini e video di com’era Gaza: vivace, affollata, con strade illuminate, auto e persone che facevano acquisti o cenavano nei ristoranti. Coppie a passeggio, bambini che giocavano o tenevano per mano i genitori; un giovane con la fidanzata a bordo di una decappottabile o seduti in un carretto trainato da cavalli. Tutta questa gioia non c’è più. Resta solo la nostalgia e il dolore per chi è stato ucciso.

È passato un anno, e così come non sappiamo cosa succederà tra un secondo, la domanda su quello che verrà dopo è un mistero ancora più grande. Nessuno sa come saranno governati i due milioni di abitanti di Gaza. Forse uno dei motivi per cui il cessate il fuoco è stato rinviato a tempo indeterminato è che nessuno vuole pensare a cosa succederà il giorno dopo, men che meno il primo ministro di Israele, Benjamin Netanyahu. Nessuna delle parti interessate sembra averne discusso. Mentre la guerra continua, è facile rispondere alla domanda su cosa verrà dopo: solo guerra. Senza un cessate il fuoco totale, qualunque discussione sul “giorno dopo” è un modo di perdere ancora tempo, di prolungare la guerra. Più il tempo passa, più persone sono uccise, e più diventerà difficile ricostruire la Striscia di Gaza. Il mondo non è abbastanza serio da chiedere un cessate il fuoco. Non vuole sapere. Finché continuano i combattimenti, può ignorare il senso di colpa. Immaginare Gaza dopo il genocidio è troppo difficile. Conosco le dispute giuridiche contro l’uso di questo termine e il dibattito che le circonda, ma per me è impossibile vedere diversamente questa guerra.

Finora il diritto internazionale umanitario è stato impotente. Non ha ottenuto nulla. Per le persone di Gaza, tutte le parole benintenzionate e i valori di organismi come le Nazioni Unite svaniscono sotto i cingoli dei carri armati, sotto le rovine e il fango. Per un abitante innocente di Gaza il cui nome è scritto su un missile israeliano in attesa del lancio, la semantica non conta. Le parole non hanno importanza. Conta quello che si fa per salvarli, per impedire a quel missile di essere lanciato. E a quanto pare non si sta facendo nulla. La gente di Gaza è abbandonata al suo destino. Con il tempo della tragedia di Gaza si parlerà sempre meno sui mezzi d’informazione e l’attenzione dei politici svanirà. Il mondo tradirà i palestinesi, come ha fatto in passato.

Israele sbaglia quando pensa che le uccisioni, la distruzione e l’intimidazione piegheranno la coscienza dei palestinesi. La pace si può raggiungere solo con le trattative, non con le uccisioni. I bambini che hanno visto la madre fatta a pezzi, il padre perdere le gambe, la loro casa demolita come potranno essere dissuasi dal pensare alla vendetta in futuro? Convincendoli che domani sarà migliore, e che la perdita della loro famiglia non sarà stata invano. Solo garantendogli una vita prospera e stabile le loro aspirazioni in quanto palestinesi saranno soddisfatte.

A un anno dal suo inizio, la comunità internazionale dovrebbe essere più determinata che mai a fermare lo spargimento di sangue. Quelle povere famiglie non possono essere abbandonate in attesa di essere uccise da un attacco aereo o dal freddo o dalla fame. È arrivato il momento di mettere fine a questa sofferenza. Mentre leggevate, altre persone sono morte. Molte hanno fatto la coda per il pane, hanno tentato di accendere un fuoco, di rattoppare un buco o un’infiltrazione in una tenda o sono andate a cercarne una nuova. Mentre leggevate, dei bambini hanno pianto.

L’unica speranza di mia sorella è non dover essere costretta a smontare la sua tenda per portarla altrove. Posso dirle sinceramente che non succederà? ◆ fdl

Atef Abu Saif è uno scrittore palestinese nato nella Striscia di Gaza. Il suo ultimo libro pubblicato in Italia è Diario di un genocidio (Fuoriscena 2024 ). Era in visita a Gaza quando Israele ha lanciato la sua offensiva il 7 ottobre 2023. È riuscito a lasciare il territorio il 29 dicembre.

Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it

Questo articolo è uscito sul numero 1585 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati