È uno degli appuntamenti annuali del ministero dell’interno. Mentre il paese è fermo nel torpore di ferragosto, il Comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza si riunisce in una grande città italiana. Quest’anno è dalla prefettura di Palermo che la ministra Luciana Lamorgese ha fornito i dati sulla delinquenza in Italia, tra cui quelli sugli omicidi: il 38 per cento delle vittime di omicidi volontari commessi da agosto del 2020 a luglio del 2021 sono donne. In totale sono 62 le donne uccise dai loro compagni o ex compagni. Questo dato, molto commentato dall’inizio della pandemia, è in leggero aumento, se si tiene conto dell’anno solare: nel 2019 le donne uccise dal loro compagno o ex compagno sono state 69, nel 2020 sono salite a 73 e quest’anno sono già almeno 39. Solo tre giorni prima del discorso della ministra dell’interno tre donne sono state uccise dai loro compagni in ventiquattro ore: due in Lombardia e una in Toscana. Una quarta è sfuggita al suo aggressore in Puglia scappando dalla sua abitazione a piedi nudi e ferita.

Qualche mese prima, in un luogo simbolico di Palermo, i sostenitori del progetto Violetta, delle associazioni Maghweb, Hryo e Naka hanno raccontato le storie di queste vittime i cui nomi continuano ad allungare una macabra lista.

Una ventina di donne di ogni età, vestite di nero, hanno formato un grande cerchio davanti al teatro Massimo, nel centro della città. Attaccati sulle loro spalle avevano grandi cartelli viola in cui si raccontavano frammenti di vite perdute.

Vite spezzate

Una dopo l’altra, le attiviste hanno letto ad alta voce: “Mi chiamo Antonia, ho 79 anni, vivo in una cittadina nella provincia di Vicenza con mio marito, con il quale sono sposata dai trent’anni. Ho fatto molte cose nella mia vita, sono stata mamma, nonna e da qualche tempo ho dei problemi di salute”.

Antonia è stata uccisa dal marito il 18 febbraio 2021. In quel tardo pomeriggio a Palermo la sua storia ha risuonato con quella di Lidia, 49 anni, militante antispecista e sostenitrice dei diritti lgbt, o di Roberta, siciliana, 17 anni, appassionata di danza, il cui fidanzato è stato arrestato perché sospettato di averla uccisa e di averne bruciato il corpo.

A chi chiama per la prima volta chiediamo: “Quanto è urgente andare via?”

I passanti, piuttosto silenziosi, si sono fatti sempre più numerosi intorno alle attiviste mentre riecheggiava una polifonia agghiacciante: “Non è un raptus, è un femminicidio”. Uno slogan che sta molto a cuore a Sabina Drago. “Si legge ovunque sui giornali: ‘Il Covid ha fatto aumentare questi gesti di follia’. Non è vero! È proprio quello che abbiamo voluto mettere in evidenza: gli uomini che cercano di uccidere la loro compagna non sono in preda a un raptus o a un gesto di follia. È un problema sociale e politico, il frutto di una società maschilista e patriarcale”, spiega la responsabile del progetto Violetta, un’associazione che combatte le violenze sulle donne. “La pandemia ha reso questa violenza più visibile, ma è sempre esistita. Il fatto di dover rimanere a casa per lunghi mesi ha messo in evidenza che per molte donne la casa non è un luogo sicuro”.

Oltre alle cifre sui femminicidi, i dati sulle violenze coniugali sono significativamente aumentati dal primo lockdown nel marzo 2020. La ministra Lamorgese ha messo in evidenza anche un’altra realtà, lo stalking. Tra agosto del 2020 e luglio del 2021 sono state presentate quasi 16mila denunce, nel 74 per cento dei casi da donne. “Questo fenomeno è quasi sistematico, molto spesso gli stalker usano il telefono”, commenta la psicologa Laura Di Teodoro. “Le telefonate e i messaggi si susseguono in continuazione. Prima chiedono: ‘Dove sei? Lo sai che ti amo. Sai che sono cambiato’, e poi qualche minuto dopo se non c’è risposta: ‘Vaffanculo, brutta stronza!’”.

Di Teodoro sente ripetere queste storie di violenze coniugali ogni settimana. Molte le ascolta sulla segreteria telefonica del numero di emergenza, la cui voce metallica risuona nel silenzio del corridoio d’ospedale dove si trova il suo ufficio. Altre durante i colloqui individuali, sette alla settimana, senza contare i colloqui telefonici. Dopo aver passato la grande porta a vetri dell’ingresso dell’ospedale di San Benedetto del Tronto, una città di medie dimensioni delle Marche, s’impiega qualche minuto percorrendo i corridoi e le scale per scendere nel suo ufficio, dove la cooperativa On the Road accoglie le donne vittime di violenza.

“Quello che è cambiato negli ultimi tempi è che le donne vengono da noi sempre più spesso autonomamente e non perché sono state consigliate dalla polizia o dall’assistente sociale. Questo è probabilmente dovuto alle campagne di sensibilizzazione in televisione”, spiega la psicologa. In effetti dall’inizio del primo lockdown alcuni spot pubblicitari del governo passano regolarmente sulla televisione italiana e incoraggiano le donne vittime di violenze coniugali e di stalking a chiamare il numero 1522. Nel 2020 queste chiamate sono aumentate del 79,5 per cento rispetto al 2019. Una parte arriva direttamente alla segreteria di On the Road.

Eppure durante il primo lockdown la segreteria è rimasta muta. Laura Di Teodoro e le sue colleghe hanno lanciato appelli sui social network per dire che loro erano sempre lì, ma invano. “La situazione è progressivamente cambiata a maggio, alla riapertura, e poi abbiamo avuto un forte aumento a settembre e poi ancora a gennaio e febbraio. Al punto che abbiamo avuto difficoltà a gestire tutte le richieste”, spiega la psicologa. La rete nazionale di centri antiviolenza Dire ha registrato la stessa tendenza. Durante i vari lockdown le chiamate di aiuto sono quasi raddoppiate, ma il numero di donne che chiamavano per la prima volta è crollato. “Per molte rimanere a casa significava resistere e sopportare”, spiega l’associazione.

“Eravamo abituate a due, tre donne al mese che venivano per la prima volta. Dopo i lockdown abbiamo le stesse cifre, ma alla settimana”, spiega la psicologa sfogliando l’agenda degli appuntamenti. “È un ritmo difficile da sostenere, tanto più che per venire qui queste donne hanno spesso aspettato fino ai limiti del sopportabile”. A chi chiama per la prima volta Laura Di Teodoro e le sue colleghe chiedono: “Quanto è urgente andare via?”.

Quelle che devono fuggire subito, spesso non passano neanche in ufficio. Vengono portate a qualche decina di chilometri da San Benedetto del Tronto, lontano dalla costa adriatica, nell’interno, nella provincia di Fermo. La Casa dei fiori di mandorlo, alla fine di una strada isolata, diventa il loro rifugio per qualche settimana, a volte qualche mese. L’indirizzo rimane segreto anche per i parenti. Il pericolo che gli ex partner le ritrovino è sempre in agguato. A volte cambiano provincia per essere più al sicuro.

Un luogo sicuro

Al pianterreno sono dieci al massimo, a volte accompagnate dai loro figli. Convivono tra il salone, la cucina, la sala giochi e la sala da pranzo. Al piano superiore ognuna ha la sua camera e il suo bagno. Di solito hanno già tutte denunciato il marito o ex marito e sono seguite dai servizi sociali.

“Non esiste un profilo tipico della donna vittima di violenze coniugali. Potrebbe capitare a chiunque, è una questione che interessa tutta la società, potrebbero essere delle donne laureate e istruite o il contrario”, spiega Emanuela Ripani, responsabile della casa rifugio e assistente sociale presso On the Road.

Se la durata media dei soggiorni oscilla tra i sei e gli otto mesi, alcune hanno bisogno di più tempo. E i tempi sono aumentati dopo la pandemia. “Oltre a offrire a queste donne un posto sicuro e la tutela legale e psicologica, cerchiamo di renderle autonome, di farle entrare nel mondo del lavoro. Il problema è che i lockdown hanno molto rallentato, se non interrotto, le offerte di stage, di lavoro, di formazione”, si rammarica Emanuela Ripani. “Di conseguenza il percorso verso l’autonomia è più lungo e difficile”. Il 20 luglio sulla Gazzetta ufficiale è stato pubblicato il testo che stabilisce il “reddito di libertà” per le donne vittime di violenze. Evocato per la prima volta nel dicembre 2020, prevede di dare alle donne vittime di violenza un aiuto mensile di 400 euro per una durata massima di un anno. Lo può richiedere solo chi è stata segnalata dai servizi sociali o dalle istituzioni. L’obiettivo è contrastare gli effetti negativi della pandemia sull’emancipazione economica delle donne che vorrebbero sottrarsi alla violenza coniugale. ◆ adr

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Questo articolo è uscito sul numero 1425 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati