Quando nel 1993 Totò Riina fu arrestato, dopo 23 anni di latitanza, viveva comodamente a Palermo con la moglie e i quattro figli. Tredici anni dopo la stessa sorte toccò all’altro capo di cosa nostra, Bernardo Provenzano, che viveva come un asceta, mangiando formaggio e cicoria, e leggendo la Bibbia in un casolare vicino a Corleone, il paese in cui era nato.
Per anni solo una persona della cerchia ristretta di Riina, Matteo Messina Denaro, è rimasta a piede libero. Il boss, noto per la sua ricchezza e la passione per le auto veloci, amante delle donne e dei piaceri raffinati della vita, è riuscito a nascondersi dagli inquirenti senza allontanarsi da casa. L’uomo che una volta si è vantato di “aver riempito da solo un cimitero” è a lungo sfuggito alle forze dell’ordine perché poteva contare sulla lealtà degli abitanti del territorio in cui ha vissuto, la città di Castelvetrano e, più in generale, la provincia di Trapani. Nel corso degli anni centinaia di agenti l’hanno cercato, ma senza successo. Una serie di arresti di persone a lui vicine, tra cui la sorella Patrizia, ha fatto sperare che la rete si stesse chiudendo, ma nessuna di loro ha voluto collaborare con gli inquirenti.
“Se si chiedeva dove fosse Matteo Messina Denaro, la gente rispondeva ‘è morto o è in provincia di Trapani’”, dice Giacomo Di Girolamo, giornalista che ha scritto una biografia di Messina Denaro intitolata L’invisibile (Il Saggiatore 2017). “Non era uno di quei mafiosi che andavano all’estero, in Brasile o nell’Europa del nord. Non aveva bisogno di costruirsi un bunker come i capi della ’ndrangheta in Calabria. Era protetto nel suo territorio”.
Troppo appariscente
Secondo gli investigatori, Messina Denaro combina la vecchia e la nuova mafia. “Come i mafiosi di una volta, concepisce l’organizzazione come uno stato superiore, che coinvolge pochi eletti degni di questo onore”, ha detto nel 2014 Teresa Principato, che è stata procuratrice aggiunta di Palermo e oggi fa parte della Direzione nazionale antimafia (Dna), sulle tracce di Messina Denaro per anni. “Si fida solo delle persone molto vicine a lui. Ma è anche moderno. È un uomo avido, spietato, che fa soldi e partecipa a qualsiasi attività produca profitto. E i suoi metodi sono efficaci”.
Il ruolo di Messina Denaro nell’organizzazione è stato a lungo oggetto di speculazioni. Da giovane era un protetto di Riina ed era vicino ai fratelli Graviano di Brancaccio, un quartiere di Palermo, famosi per la loro ferocia. “Se mi succede qualcosa, Matteo e Giuseppe [Graviano] sanno tutto”, pare abbia detto Riina una volta. Dopo l’arresto dei capi, la commissione di cosa nostra, il suo organo decisionale, ha cercato di nominare un nuovo leader, ma gli inquirenti sono riusciti a evitarlo.
Anche se il padre Ciccio Messina Denaro era un capo della vecchia scuola, si diceva che Matteo, detto U siccu (il magro), non avesse le qualità per essere un boss tradizionale. Era troppo appariscente e la sua ossessione per il gioco d’azzardo non era ben vista. “È entrato nel gruppo dei corleonesi, ma per certi versi era un mafioso moderno”, dice Di Girolamo. “Non era sposato ma aveva un figlio con la sua compagna, una cosa impensabile per un boss di una volta. Inoltre, mentre i vecchi mafiosi erano religiosi, lui si considera agnostico, se non ateo”.
L’organizzazione ha attirato su di sé l’ira dello stato, assassinando nel 1992 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Cosa nostra è sempre riuscita ad adattarsi ai cambiamenti, e la forza di Messina Denaro è stata conservare i suoi legami con la “zona grigia” in cui il crimine organizzato convive con la politica e gli affari. Come ha scritto John Dickie nel libro Mafia republic (Laterza 2016), la zona grigia è “un’area della società nella quale la complicità con i boss è difficile da individuare, e dove i rapporti tra i boss e gli uomini d’affari non sono affatto sempre sbilanciati a favore dei primi”.
L’ultimo avvistamento
L’enorme ricchezza di Messina Denaro è frutto degli investimenti nel settore dell’energia e dei rifiuti, e della capacità di infiltrarsi nelle amministrazioni locali per ottenere il controllo di importanti appalti edilizi. Tre anni fa un imprenditore del settore eolico è stato arrestato perché considerato vicino a Messina Denaro. Anche se cosa nostra fa affari in gran parte nella sfera della legalità, usa ancora la minaccia della violenza.
L’organizzazione ha attirato su di sé l’ira dello stato, assassinando nel 1992 i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Dopo l’arresto di Riina, Messina Denaro fu coinvolto negli attentati del 1993, quando cosa nostra prese di mira luoghi d’importanza culturale e turistica a Milano, Firenze e Roma per costringere lo stato a cancellare le leggi più dure contro le organizzazioni mafiose.
L’ultima volta che Messina Denaro fu visto in pubblico prima del suo arresto a Palermo era in Toscana nel 1993. Fu in quel periodo che un’autobomba esplose a poca distanza dalla Galleria degli Uffizi, a Firenze, uccidendo tre persone, ferendone più di quaranta e danneggiando opere d’arte di valore inestimabile.
Messina Denaro fu inoltre coinvolto in uno dei crimini più orribili della feroce campagna del clan dei corleonesi: il rapimento e il successivo omicidio di Giuseppe Di Matteo, dodici anni, figlio di un pentito di mafia. Messina Denaro faceva parte del gruppo che per due anni tenne il ragazzo incatenato in varie località della Sicilia occidentale, per convincere il padre a ritrattare le rivelazioni fatte agli investigatori. Alla fine Giuseppe Di Matteo fu strangolato e il suo corpo sciolto nell’acido. Non c’è dubbio sul fatto che la cattura di una persona responsabile di molti omicidi sia una vittoria per le forze dell’ordine, ma alcuni esperti hanno dubbi sull’importanza attuale di Messina Denaro. “Non è mai stato il capo di cosa nostra”, dice Principato. “Faceva parte della commissione, è una cosa diversa. Non ha mai preso il controllo di Palermo, è rimasto il boss del trapanese”.
Principato ha cercato per anni di catturare Messina Denaro dopo aver ricevuto indicazioni che facevano pensare che il boss avesse ricevuto cure mediche in alcune cliniche dell’Italia del nord. Riina avrebbe continuato a gestire l’organizzazione dal carcere, nonostante le condizioni di massima sicurezza che lo tenevano isolato e limitavano rigorosamente le visite. La capacità di Messina Denaro di continuare a esercitare un’influenza sull’organizzazione dipenderà probabilmente dalla sua salute.
Non è finita
C’è chi dice che Messina Denaro, dopo anni di latitanza, volesse essere catturato per poter finire i suoi giorni in ospedale. Che sia vero o no, la rete di protezione alla fine ha ceduto. E visto che i tentativi di cambiare la commissione che governa la mafia sono stati sventati, a questo punto non c’è nessuno nell’organizzazione che possa prendere il suo posto.
Nino Di Matteo, ex pubblico ministero di Palermo che attualmente fa parte del consiglio superiore della magistratura, ha dichiarato: “È un’ottima notizia, ma il successo dello stato sarà completo solo quando riusciremo a capire che ruolo abbia avuto Matteo Messina Denaro nella stagione delle bombe del 1992-1993. È anche importante scoprire come sia riuscito a rimanere latitante per trent’anni, e chi lo proteggeva”.
“L’arresto del 15 gennaio è un importante passo avanti. Tuttavia, sarebbe un errore pensare che la lotta alla mafia sia finita”, ha continuato Di Matteo. “Certamente Messina Denaro era il più importante mafioso ancora in libertà. Ma l’esperienza dovrebbe insegnarci che cosa nostra è capace di ricompattarsi, riorganizzarsi e rilanciarsi. Creare legami con gli affari e, in alcuni casi, con la politica, è sempre stato nel dna dell’organizzazione. Credo che Matteo Messina Denaro sappia molto di questi legami. Sarebbe un grande passo avanti se decidesse di collaborare con la giustizia, e di dire quello che sa”. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1495 di Internazionale, a pagina 18. Compra questo numero | Abbonati