Erano più o meno le sette di sera del 15 agosto quando nel villaggio di Jit, nel nord della Cisgiordania, la quiete è stata interrotta. Secondo gli abitanti, circa cento persone a volto coperto e vestite di nero sono arrivate dalle colonie vicine portando con sé fucili, pistole, spranghe e sassi. Gli abitanti, terrorizzati, si sono barricati in casa. I coloni si spostavano in gruppi, “come se fosse una missione pianificata”, racconta Hassan Arman, la cui auto è stata incendiata quando gli assalitori hanno fatto irruzione nel cortile di casa sua.

I palestinesi hanno riferito che alcuni invasori hanno usato pesanti sbarre di ferro per rompere le finestre delle case e i finestrini delle auto. Altri hanno incendiato tutto quello che incontravano. La puzza acre di fumo e di plastica bruciata si è rapidamente diffusa nel villaggio, mentre il fuoco si propagava nei campi vicini. Ore dopo l’attacco l’odore del fumo era ancora nell’aria. “È stata una scena orribile”, ricorda Ibrahim Sadah. Entrambe le sue auto e parte della sua casa sono state incendiate. “Abbiamo difeso la nostra casa scalzi. Non avevamo scelta”, dice, aggiungendo che i coloni lanciavano pietre e bottiglie molotov, mentre in sottofondo si sentivano colpi di arma da fuoco.

Secondo alcuni abitanti i coloni provenivano dall’avamposto di Havat Gilad, hanno circondato Jit e lanciato gas lacrimogeni. “Se non gli avessimo tenuto testa sarebbero riusciti a spingersi fin dentro il villaggio e i danni sarebbero stati davvero seri”, dichiara Samer Arman. Le strade erano cosparse di decine di bossoli di proiettili. Nell’attacco è stato ucciso un abitante del villaggio, Rashid Sadah, di 23 anni. Sua madre, Iman Sadah, lo ricorda così: “Adorava i computer e lavorava in un negozio di Nablus. Aveva tanti sogni. Due settimane fa mi ha detto che si voleva sposare e aveva cominciato a preparare la casa, ma ora me l’hanno portato via”. Poi aggiunge che “Rashid non era diverso da tutti gli altri palestinesi, uccisi ogni giorno solo perché sono palestinesi”.

Senza protezione

Hassan Arman spiega che gli aggressori sembravano organizzati. Lui e la sua famiglia erano in casa, “quando all’improvviso abbiamo visto circa un centinaio di coloni invadere il quartiere. Si sono divisi in gruppi, ognuno incaricato di un compito specifico: uno rompeva le finestre, un altro lanciava le molotov, altri ancora tiravano le pietre”. Arman aggiunge che un gruppo di persone armate proteggeva gli altri assalitori: “Sembravano preparati a realizzare il loro piano. Hanno cercato di entrare in casa nostra, dove c’erano donne e bambini. Io li ho affrontati da solo per quasi quindici minuti. Quando se ne sono andati hanno continuato a sparare e si sono diretti verso il quartiere successivo. Sono venuti con l’obiettivo di uccidere, di distruggere”.

L’attacco è durato più di un’ora e mezza. Poi gli aggressori si sono ritirati nei pressi del posto di guardia dell’esercito. “Sembrava che fossero d’accordo, come se i militari gli avessero permesso di entrare nel villaggio senza problemi, di distruggere e commettere violenze indisturbati”, osserva Arman.

Ibrahim Sadah racconta che alcune persone si erano nascoste vicino agli oliveti per sfuggire agli spari: “Non sapevamo cosa fare. Abbiamo difeso le case a mani nude. È stato davvero rischioso, poteva finire molto peggio”. Mohanad Sadah, zio di Rashid, ricorda di aver sentito “qualcuno che da un altoparlante invitava a difendere il villaggio. Rashid stava cercando di respingere i coloni, alcuni dei quali erano già entrati. A quel punto gli hanno sparato a bruciapelo”. Secondo lui non erano coloni di Havat Gilad, “quelli li conosciamo, credo che venissero da fuori”. Ibrahim Sadah, che è stato ferito dal lancio di pietre, conferma: “Hanno usato le torce per accecarci, in modo che non potessimo vedere bene o scattare foto”. Poi aggiunge: “Ora siamo spaventati e preoccupati, perché non abbiamo alcuna protezione. Siamo stati abbandonati”.

Il mattino successivo il villaggio era ancora sconvolto. Alcuni abitanti denunciano che l’esercito è arrivato tardi, dopo che Rashid Sadah era stato colpito. E sono terrorizzati all’idea che un’aggressione simile possa esserci di nuovo. “Non possiamo portare armi né formare gruppi di vigilanza”, dice Basem Jitawi. “Nel quartiere dove vivo stiamo pensando di mettere dei cani all’ingresso di ogni casa”.

Gli abitanti dicono di avere rapporti abbastanza buoni con i coloni degli insediamenti vicini. “È la prima volta che succede una cosa simile. In passato ci sono stati dei conflitti, ma si sono risolti senza violenza”, conferma Ibrahim Sadah. “Non vogliamo problemi, ma se continuerà così i giovani saranno spinti a usare metodi aggressivi. E a perderci saremo sia noi sia loro. La violenza non conviene a nessuno, se non a quelli che l’hanno pianificata”.

Jitawi teme che il villaggio deciderà di formare delle unità di sicurezza armate, come quelle dei kibbutz israeliani. “Quanta violenza possiamo ancora sopportare?”, chiede. “Se succede di nuovo e nessuno punisce i terroristi ci sarà un’escalation che noi nel villaggio non saremo in grado di controllare, soprattutto se non ci sarà nessuno a difenderci dai coloni. Finirà che i giovani prenderanno le armi e qui sarà il caos”. ◆ fdl

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Questo articolo è uscito sul numero 1577 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati