È una svolta drammatica in quella che attualmente è la guerra più brutale in Africa. L’esercito etiope, ben equipaggiato e sostenuto dalla vicina Eritrea, ha dovuto ritirarsi dalla regione ribelle del Tigrai. Il Fronte popolare di liberazione del Tigrai (Tplf), che tra le montagne della zona è a casa sua, è rientrato trionfalmente nel capoluogo Mekelle, che aveva dovuto abbandonare sette mesi fa. Altre città cadono come tessere di domino. È la conferma che nessun esercito convenzionale può resistere in un territorio difficile combattendo contro una popolazione considerata collettivamente come un nemico. Gli eserciti guerriglieri lo hanno dimostrato più e più volte. Le potenze di tutto il mondo hanno perso migliaia di soldati per poi essere costrette ad accettare la sconfitta. Il governo etiope avrebbe dovuto saperlo bene: i ribelli del Tigrai erano già insorti trent’anni fa contro la dittatura militare socialista dell’epoca e avevano preso il controllo di tutta l’Etiopia, uno stato multietnico che alla lunga non erano riusciti a gestire. Solo una volta allontanati dal potere e rispediti nella loro regione d’origine erano riusciti a ritrovare le proprie radici, come braccio armato di una popolazione invece che di uno stato centrale autoritario. Il primo ministro etiope Abiy Ahmed, premio Nobel per la pace nel 2019, ora deve raccogliere i cocci della propria politica. Voleva combattere i suoi avversari interni con i loro stessi mezzi, cioè con la violenza, ma non ci è riuscito. Non è detto che riuscirà a superare questa sconfitta. Lo stesso vale per il dittatore eritreo Isaias Afewerki, che ha investito quasi tutte le sue risorse militari nel conflitto del Tigrai per rifarsi della sconfitta subita nella guerra combattuta tra il 1998 e il 2000 contro l’Etiopia, all’epoca ancora guidata dal Tplf. La strategia della terra bruciata adottata dagli eritrei nel Tigrai è stata soprattutto una vendetta per le atrocità subite in precedenza, ma non ha portato a nulla: sul piano internazionale è cresciuta l’indignazione per il susseguirsi di crimini di guerra documentati, e alla popolazione del Tigrai non è rimasta altra scelta che sostenere la guerriglia. Alla fine dei conti i metodi brutali usati dalle forze etiopi ed eritree hanno contribuito all’affermazione dei guerriglieri. Il Tigrai si presenta così nuovamente come entità ribelle armata, sfidando la sovranità dello stato etiope sul suo territorio. Da decenni c’erano segnali che, con la fine delle dittature militari del passato, l’Etiopia rischiava di disintegrarsi, come è successo alla Jugoslavia. Oggi questa possibilità è più concreta che mai. ◆ mp
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Questo articolo è uscito sul numero 1416 di Internazionale, a pagina 17. Compra questo numero | Abbonati