Probabilmente ci vorranno settimane per valutare il costo complessivo del malfunzionamento (il più grande della storia dell’informatica) del software dell’azienda per la sicurezza digitale CrowdStrike, avvenuto il 19 luglio. Ma il suo impatto immediato è evidente: otto milioni e mezzo di computer sono stati messi fuori uso, creando problemi ad aeroporti, banche, mercati finanziari, e servizi sanitari. Tuttavia, in questa faccenda c’è anche una nota positiva. Il collasso di questi servizi di uso quotidiano, causato da un aggiornamento difettoso del software di un’azienda prima sconosciuta ai più, smonta alcuni miti sul capitalismo digitale.
In primo luogo, mentre i leader della Silicon valley denunciano il rischio che l’intelligenza artificiale possa diventare incontrollabile, la vera minaccia risiede nelle pratiche di riduzione dei costi delle aziende. Il blocco del 19 luglio si poteva evitare semplicemente investendo un po’ di più sul software. Eppure la CrowdStrike – nonostante una capitalizzazione di mercato superiore ai 90 miliardi di dollari – ha preferito risparmiare per fare più profitti. È possibile che il capitalismo digitale stia compromettendo le sue stesse fondamenta?
Il blocco del 19 luglio si poteva evitare semplicemente investendo un po’ di più sul software. Eppure l’azienda CrowdStrike ha preferito risparmiare per fare più profitti
Mentre riflettiamo sui rischi associati ai sistemi basati sull’intelligenza artificiale, non dovremmo forse preoccuparci dei tagli ai costi delle aziende? Non è forse ora di riflettere sul fatto che la concorrenza capitalista condiziona lo sviluppo tecnologico e allo stesso tempo ne aumenta molto i rischi?
In secondo luogo, la débâcle della CrowdStrike evidenzia i limiti del cloud computing. In origine questa tecnologia prometteva a organizzazioni di vario tipo di poter fare affidamento su Amazon, l’Alphabet o la Microsoft per le loro esigenze di elaborazione dati, tagliando il personale ed esternalizzando servizi essenziali. L’unico inconveniente consisteva nel rischio per la sicurezza informatica del tenere costantemente online i propri sistemi, ma di questo avrebbero dovuto occuparsi aziende come la CrowdStrike.
Ma l’assetto attuale, in cui i servizi cloud sono fortemente centralizzati e privatizzati, non è l’unico possibile. La “nuvola informatica” potrebbe funzionare come un servizio pubblico. In questo modello sarebbe un’agenzia statale, invece di Amazon o della Microsoft, a fornire i servizi informatici, proprio come nell’epoca precedente al neoliberismo erano gli enti pubblici a garantire l’elettricità o l’acqua. Un servizio cloud di questo tipo avrebbe minori aspettative di profitto, con tanti benefici: potrebbe passare dai software proprietari a quelli liberi, essere meno vulnerabile e rendere superate aziende come la CrowdStrike. Il modello sarebbe comunque centralizzato, ma si baserebbe su decisioni prese democraticamente.
In alternativa si può immaginare un sistema decentrato in cui organizzazioni chiave, come le banche o le ferrovie, gestiscono la propria infrastruttura, mantenendo reparti informatici di grandi dimensioni e mettendo in conto una certa inefficienza. I primi esperti di cibernetica degli anni cinquanta e sessanta capirono che la ridondanza era la chiave per il successo di un’organizzazione. Tuttavia, come lo stato sociale, per mantenere questa ridondanza bisogna che qualcuno paghi le spese. E non sarà il mercato, che odia l’inefficienza. Anche se il cloud computing – e presto anche l’intelligenza artificiale – funziona come un servizio pubblico, lo trattiamo come una merce. A differenza dell’acqua, ci sono pochi appelli per rendere questo servizio un bene pubblico. Ma ora che abbiamo visto i rischi che implica, le cose potrebbero cambiare.
Il terzo mito sfatato dal blackout della CrowdStrike è l’idea che il settore tecnologico possa autoregolarsi. Dieci anni fa la Microsoft ha lanciato l’iniziativa Digital Geneva conventions per promuovere l’idea che debbano essere le aziende, e non i governi, a guidare la regolamentazione del ciberspazio. Il recente incidente dimostra le falle di questa logica.
Quello che è appena successo è paragonabile al fallimento della Lehman Brothers nella crisi finanziaria del 2008. Se fossimo più saggi, sottoporremo le nostre infrastrutture digitali agli stessi rigorosi stress test imposti ai mercati. Finché non riusciremo a mobilitare un consenso politico così ampio da ripensare il modello di proprietà alla base del cloud computing – e ad accettare che le parti critiche di questa infrastruttura possano avere al loro interno forme d’inefficienza – dovremo imporre dei costi aggiuntivi ad aziende come la Microsoft e la CrowdStrike. Se questo non avverrà, saranno i contribuenti, i passeggeri e i pazienti (invece che gli azionisti delle aziende) a sostenere i costi della massimizzazione dell’efficienza.
La lezione più importante del recente blackout, quindi, è la seguente: prima o poi qualcuno farà le spese di tutti questi tagli dei costi. Faremmo bene ad assicurarci che a pagare sia chi i tagli li fa, non chi li subisce. ◆ fdl
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Questo articolo è uscito sul numero 1573 di Internazionale, a pagina 40. Compra questo numero | Abbonati