Si sarebbe dovuto chiamare The activist il nuovo talent della Cbs, sei militanti in gara per vincere una poltrona al prossimo G20, e lì manifestare il proprio dissenso. “Gli attivisti si sfideranno in missioni, campagne digitali ed eventi della comunità per catturare l’attenzione dei leader globali, chiedendo risposte concrete”, si legge sul comunicato stampa, con il pubblico e una giuria a decretare l’antagonista più meritevole. Il programma però non andrà in onda. Alla notizia, i social si sono scatenati, stigmatizzando la riduzione a gioco di un tema importante come l’attivismo. “Condivisione, non competizione”, hanno scritto, e il movimento Global citizen, produttore del format insieme a Live Nation, è stato accusato di bieco opportunismo. “Noi vogliamo mostrare cosa c’è dietro l’impegno sociale”, è stata la difesa. Ma la reazione, non più arginabile, ha convinto una delle giurate, l’attrice Julianne Hough, già criticata in passato per alcuni siparietti in blackface, a fare un passo indietro. La Cbs ha fermato tutto e ha annunciato che il materiale già raccolto diventerà un documentario. Un po’ mi dispiace. Che la rivoluzione non sia una prima serata lo sappiamo. Ma raccontare al grande pubblico i movimenti non solo come una truppa di teppisti avrebbe giovato alle giuste cause, ed equilibrato l’invadenza dell’altro format di grande successo: venti concorrenti che gareggiano per dimostrare chi è il più potente. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1428 di Internazionale, a pagina 88. Compra questo numero | Abbonati