Samira Abu Rmeleh cammina sopra montagne di macerie e detriti per raggiungere quello che resta della sua casa nel campo profughi di Jenin. È una giornata fredda e piovosa nel nord della Cisgiordania, e il campo è quasi irriconoscibile. Edifici sgretolati, auto bruciate, bossoli di proiettili, e lungo le strade i corpi senza vita dei cani randagi. A circa cento metri di distanza, si muovono i bulldozer e i veicoli corazzati israeliani. “Oggi sta succedendo qualcosa di molto peggio rispetto agli anni della seconda intifada”, dice Abu Rmeleh, riferendosi alla rivolta palestinese tra il 2000 e il 2005. “E come nella Striscia di Gaza nessuna casa del campo ormai è abitabile. Ma non ce ne andremo. Siamo pronti a vivere nelle tende se necessario. L’abbiamo già fatto in passato”.

Abu Rmeleh è una dei 20mila palestinesi cacciati con la forza dal campo di Jenin nelle ultime settimane durante un’operazione militare israeliana nell’area. Portando con sé il poco che sono riuscite a prendere, le famiglie sono fuggite a piedi nei primi giorni dell’invasione lungo una strada sterrata divelta dalle ruspe israeliane, mentre i soldati bloccavano i movimenti all’interno e all’esterno del campo. Da allora le strade sono state sventrate, comprese le principali vie d’accesso all’ospedale. Le forze israeliane hanno distrutto le infrastrutture idriche, fognarie e delle telecomunicazioni, e hanno raso al suolo un intero isolato residenziale con esplosioni controllate.

Graffiti sulle macerie

Arrivata alla quinta settimana, l’operazione Muro di ferro è stata estesa ad altri tre campi profughi nel nord della Cisgiordania, facendo sfollare altre 20mila persone da Tulkarem, Nur Shams e Al Far’a. L’esercito israeliano dichiara di aver preso di mira i gruppi della resistenza armata attivi in quelle zone, ma ha fornito scarse prove dei risultati. E mentre i soldati devastano le infrastrutture civili a terra, gli aerei da combattimento e i droni sganciano missili dall’alto.

La famiglia di Abu Rmeleh, come molte altre, è andata a stare da amici e parenti nella città vicina. Ma anche fuori dal campo la sicurezza è un concetto fragile. Gli abitanti temono la rappresaglia israeliana per aver dato rifugio agli sfollati. I cecchini israeliani sono sui tetti dentro e intorno al campo, e sorvegliano le rovine. All’inizio di febbraio l’esercito ha dato ai soldati in Cisgiordania ampia discrezionalità per sparare a qualunque cosa o persona ritenuta “sospetta”. Abu Rmeleh è consapevole dei rischi, ma alza le spalle quando le chiedo se ha avuto paura che potessero spararle quando è tornata a recuperare alcuni oggetti personali. “Non mi interessa”, dice. “Sono già morta”.

Non lontano un adolescente di nome Adham sembra altrettanto imperturbabile. Le forze israeliane hanno distrutto la casa della sua famiglia e ucciso il suo amico Mohammed, di 17 anni. In piedi di fronte alle rovine di una casa, agita una bomboletta spray e scrive un graffito sulle macerie. Intorno a lui, alcuni degli edifici demoliti sono già stati marchiati dai soldati israeliani con lo slogan nazionalista ebraico Am Yisrael chai (il popolo di Israele vive), come è successo anche a Gaza.

Adham ci fa vedere un volantino distribuito dall’esercito israeliano. C’è scritto in arabo: “Il terrorismo ha distrutto il campo. Respingete i miliziani. Sono loro la causa della distruzione. Siete voi che pagate il prezzo per la vostra sicurezza e una vita migliore”. Per molti a Jenin questo messaggio non è né nuovo né convincente. La maggior parte degli abitanti del campo è composta da discendenti di famiglie espulse dalla regione di Haifa dalle milizie sioniste e dalle forze israeliane durante la Nakba del 1948 (la catastrofe, termine con cui ci si riferisce alla cacciata di centinaia di migliaia di palestinesi in seguito alla nascita d’Israele). Nei decenni Jenin è diventata un epicentro dell’attivismo e della resistenza palestinese, le sue strade sono state ripetutamente colpite dalle incursioni e dagli assedi israeliani, in particolare durante la seconda intifada, quando i bombardamenti israeliani e gli scontri con i combattenti della resistenza devastarono il campo.

Dopo una campagna di sei settimane delle forze di sicurezza dell’Autorità nazionale palestinese (Anp) per reprimere i gruppi armati e riaffermare il controllo nel campo, il ministro della difesa israeliano ha dichiarato che questa operazione sta mettendo in pratica “le lezioni imparate” a Gaza. E ora sembra che Israele stia considerando l’ipotesi di rendere permanente la sua presenza militare nell’area. All’ingresso dell’ospedale di Jenin c’è un murale che raffigura Shireen Abu Akleh, la giornalista di Al Jazeera uccisa dai militari israeliani nel 2022 mentre seguiva un’altra incursione nel campo. Il direttore dell’ospedale, Mustafa Hamarsheh, descrive una situazione sempre più ingestibile: “Molti dei nostri 500 dipendenti non riescono nemmeno a raggiungere la struttura”. A meno che non arrivino con un’ambulanza, le truppe israeliane spesso li fermano ai posti di blocco, li perquisiscono, e molte volte li fanno tornare indietro. Nei primi giorni dell’incursione diversi operatori sanitari sono rimasti feriti quando i soldati hanno circondato l’ospedale, mettendolo sotto assedio. Successivamente l’esercito si è ritirato, ma “la maggior parte dei pazienti ha troppa paura di arrivare qui”, dice Hamarsheh. “Funzioniamo al 50 per cento”.

I territori palestinesi

Dall’inizio del 2025 le forze israeliane hanno ucciso almeno 70 palestinesi in Cis­giordania, tra cui dieci bambini, secondo il ministero della sanità palestinese. Solo a Jenin sono state uccise 38 persone, compreso un amico di Hamarsheh di 70 anni che era fuggito dal campo dopo l’incursione ed era tornato per controllare la sua casa. “La sua età era inequivocabile; era ovvio che non fosse un combattente”, dice Hamarsheh. “Eppure, gli israeliani l’hanno ucciso. Aveva una ferita d’arma da fuoco all’addome ed è stato lasciato a dissanguarsi per un’ora. Nessuna ambulanza è riuscita a raggiungerlo; non si poteva passare”. Bloccare le ambulanze è la normalità, continua Hamarsheh. I medici sono costretti ad aspettare ai posti di blocco, e questo causa la morte per dissanguamento dei pazienti prima che possano essere trasportati altrove. La distruzione di strade e infrastrutture aggrava la crisi. “Quello che sta succedendo qui è una versione in scala ridotta di Gaza”, continua Hamarsheh. “Una campagna intenzionale per distruggere, rendere la vita impossibile e mandare un messaggio a tutte le persone del campo e della città: andatevene. Andate via dalla Cisgiordania. Andate da qualche altra parte”.

Raffiche di colpi

Dopo esserci fatti strada attraverso le vie intorno all’ospedale di Jenin, proviamo a entrare nel cosiddetto “campo nuovo”, che si trova nella zona occidentale. Anche qui si aggirano le jeep militari israeliane, i loro motori rombano mentre perlustrano le strade. Gli abitanti ci avvertono che c’è un cecchino nella zona.

Al margine del campo il proprietario di un piccolo mini-market ci fa segno di entrare nell’appartamento dietro il negozio. È di sua madre, seduta lì accanto. La voce della donna s’incrina quando racconta quello che è accaduto a sua figlia in uno dei primi giorni dell’incursione: era uscita da una strada laterale vicino al negozio, finendo nella traiettoria dei soldati israeliani, che hanno sparato lacerandole il braccio. I chirurghi gliel’hanno rimesso a posto con delle placche di platino, ma non potrà mai più muovere la mano, dice la madre, scorrendo alcune foto del braccio ferito della ragazza.

Improvvisamente sentiamo dei colpi di arma da fuoco. Cinque, forse sei spari risuonano fuori dal negozio. Saltiamo in piedi. La famiglia scappa verso il retro dell’appartamento, noi li seguiamo. Il suono – forte e penetrante – indica che i colpi provengono da pochi metri di distanza. Secondo una chat di un gruppo WhatsApp della zona, le forze israeliane hanno sparato alle persone che tentavano di rientrare nel campo per recuperare i loro averi. Poco dopo una persona in bicicletta prova a entrare nel campo ed è accolta da un’altra raffica di colpi, riuscendo a evitarla.

Per circa tre ore rimaniamo dentro l’appartamento alle spalle del mini-market, riparandoci insieme alla famiglia palestinese. Fuori le strade restano calme, ma la tensione è palpabile. Dopo essersi coordinati con l’esercito israeliano, gli operatori della Mezzaluna rossa finalmente ci scortano fuori.

Qualcosa di più ampio

Alla fine di gennaio l’operazione militare di Israele si era già allargata ben oltre Jenin. Il 29 gennaio un attacco aereo israeliano ha colpito un quartiere affollato nel villaggio di Tammun, vicino al campo di Al Far’a, uccidendo almeno dieci palestinesi. Poco dopo le forze israeliane hanno fatto irruzione a Qalqiliya e nella sua periferia, intensificando l’offensiva e rafforzando il controllo su tutte le principali zone del nord della Cisgiordania.

A Tulkarem, che costeggia la Linea verde tra Israele e la Cisgiordania, la situazione è altrettanto precaria. Dall’inizio della guerra a Gaza, le ruspe e i droni hanno ripetutamente devastato il campo profughi, danneggiando strade, abitazioni e negozi. L’allargamento dell’operazione Muro di ferro nelle ultime settimane ha costretto alla fuga tre quarti della popolazione.

I partner locali dell’ong tedesca Medico, che fanno parte di Jadayel, il Centro palestinese per l’arte e la cultura, distribuiscono coperte e cuscini alle famiglie sfollate. Operano indipendentemente dall’Anp e affermano che la sua burocrazia è un ostacolo che ritarda inutilmente la distribuzione degli aiuti.

Muayyad Shaaban, capo della commissione dell’Anp per la resistenza al muro e agli insediamenti, sostiene invece che l’istituzione sta facendo quello che può, distribuendo tra i 400 e i 500 pasti al giorno alle famiglie sfollate. Secondo lui l’attacco israeliano “non riguarda la sicurezza, ma è un’operazione politica”. La maggior parte delle persone uccise e ferite nei campi, spiega, non aveva niente a che fare con la resistenza armata. Shaaban afferma che tutto questo “fa parte del regalo” fatto dal primo ministro Benjamin Netanyahu all’estrema destra in cambio del cessate il fuoco a Gaza: dare al ministro delle finanze Bezalel Smotrich “tutto quello che vuole”. Inoltre suggerisce che l’operazione militare in corso nel nord della Cis­giordania stia in realtà ponendo le basi per qualcosa di molto più ampio: l’annessione. E senza dubbio i pezzi stanno andando al loro posto. Dal 7 ottobre 2023 un’intensificazione della violenza dei coloni sostenuti dallo stato ha costretto più di 50 comunità rurali palestinesi a lasciare le loro terre, e nello stesso periodo i coloni hanno creato 40 nuovi avamposti.

Nel frattempo, una delle prime mosse di Donald Trump ritornato alla Casa Bianca è stata annullare le sanzioni imposte dall’amministrazione di Joe Biden ad Amana, un’importante organizzazione per lo sviluppo delle colonie.

In questi giorni tra i palestinesi cresce il sospetto che Washington possa presto riconoscere formalmente la sovranità israeliana sulla Cisgiordania, legittimando sulla scena internazionale quella che da tempo è la politica israeliana dell’annessione di fatto.

In un centro di accoglienza a Shweikeh, nella periferia nord di Tulkarem, un uomo di nome Bahazat Dheileh descrive le difficoltà crescenti nel far arrivare le forniture a chi ne ha bisogno. Le richieste più urgenti tra le famiglie sfollate, dice, sono il latte in polvere e i pannolini, aggiungendo che le forze israeliane hanno impedito alle famiglie di portare con sé qualsiasi cosa nella fuga dal campo. Questo ha peggiorato una situazione umanitaria già disastrosa, anche a causa delle leggi israeliane che impediscono le attività dell’Unrwa, l’agenzia delle Nazioni Unite per i rifugiati palestinesi, rendendo ancora più frammentaria la distribuzione di aiuti.

Non distante da qui, nel giardino sul retro della casa di suo fratello, Abdellatif Sudani è fermo in piedi con lo sguardo assente. Tre settimane fa ha lasciato il campo di Tulkarem con i due figli. Nel corso delle precedenti incursioni israeliane aveva sempre insistito per restare, ignorando gli avvisi di evacuazione. Ma stavolta è stato diverso. “Girava voce che l’esercito avesse l’intenzione di restare”, dice. Ma non è stato questo a convincerlo ad andare via: sono stati i suoi figli. “Chi ci proteggerà?”, chiede con la voce piatta. “Siamo soli”. ◆ fdl

Ultime notizie
Funerali, accordi e tregua a rischio

◆Il 26 febbraio 2025 si sono svolti in Israele i funerali di Shiri Bibas e dei suoi figli Ariel e Kfir, diventati simboli della tragedia degli ostaggi rapiti da Hamas durante gli attacchi del 7 ottobre 2023. I loro corpi erano stati restituiti il 20 e il 21 febbraio insieme a quello di un altro israeliano morto in prigionia, nell’ambito dell’accordo per il cessate il fuoco tra Israele e Hamas nella Striscia di Gaza.
◆Il 25 febbraio Hamas ha confermato che è stato trovato un accordo con Israele, che prevede la consegna dei corpi di quattro ostaggi israeliani in cambio della liberazione di 620 prigionieri palestinesi che avrebbero dovuti essere rilasciati il 22 febbraio. Quel giorno Hamas aveva rilasciato sei ostaggi, che però secondo il governo israeliano erano stati sottoposti a cerimonie umilianti, perché erano stati fatti sfilare su un podio davanti alla folla. Israele aveva quindi bloccato la liberazione dei prigionieri palestinesi.
◆L’esercito israeliano ha colpito alcuni siti militari nel sud della Siria il 25 febbraio, uccidendo almeno due persone.
◆Il 23 febbraio il governo israeliano ha affermato di essere pronto a riprendere “in qualsiasi momento” i combattimenti nella Striscia di Gaza. La prima fase della tregua a Gaza, entrata in vigore il 19 gennaio, si concluderà il 1 marzo, ma i negoziati per la seconda fase non sono ancora cominciati. Almeno sei neonati sono morti nelle ultime due settimane a causa del freddo nella Striscia di Gaza.
◆Il 21 febbraio i leader degli stati del Golfo, dell’Egitto e della Giordania si sono incontrati a Riyadh, in Arabia Saudita, per accordarsi su un piano per il futuro di Gaza alternativo a quello proposto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, che prevede il trasferimento forzato della popolazione. La loro proposta sarà presentata al Cairo il 4 marzo, in occasione di un summit della Lega araba.
◆Il 20 febbraio una serie di esplosioni su tre autobus vuoti parcheggiati alla periferia di Tel Aviv non ha provocato vittime. Le autorità israeliane hanno parlato di presunti attacchi terroristici. Afp


Hanno Hauenstein è un giornalista che collabora con The Guardian, The Intercept e Berliner Zeitung. +972 Magazine è un sito indipendente di giornalisti israeliani e palestinesi.

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Questo articolo è uscito sul numero 1603 di Internazionale, a pagina 16. Compra questo numero | Abbonati