Un gruppetto di persone sbarca su una spiaggia fangosa del Kent, sul promontorio di Dungeness. In questo paesaggio arido e remoto, una centrale nucleare svetta sopra il giardino acciottolato creato da Derek Jarman, regista e artista britannico morto nel 1994. La scena è immortalata in una piccola fotografia, pubblicata a luglio dal quotidiano britannico The Guardian. L’immagine di queste figure anonime che vengono aiutate a raggiungere la terraferma dai soccorritori svela poco sul loro conto. Chi sono e perché sono venute qui? Perché è stato necessario salvarle da un barchino nel canale della Manica? La maggior parte di noi penserà che sono migranti “illegali”. E poi girerà pagina.
Secondo le stime delle Nazioni Unite, nel 2022 per la prima volta il numero di sfollati, rifugiati o profughi ha superato i cento milioni. I movimenti migratori globali provocati dall’aggravarsi della crisi climatica, dalle guerre e dalla povertà continuano a crescere. La foto pubblicata dal Guardian è l’ennesimo esempio di una retorica visuale (insieme al filo spinato e alle barche) che si ripete così spesso sui mezzi d’informazione occidentali da risultare ormai banale. Ritratti abitualmente come orde senza volto, vittime vulnerabili o intrusi pericolosi, diventano oggetto di un dibattito pubblico in cui le loro storie sono moneta di scambio. In che modo l’arte può mostrarci la loro dignità e la loro personalità? Gli artisti possono offrire una prospettiva alternativa all’allarmismo che accompagna costantemente l’idea della migrazione.
Un pezzo di manzo
Dall’altra parte della Manica c’è Calais, ultima sponda da cui tentare la traversata dall’Europa verso il Regno Unito. Qui William Hogarth ha ambientato nel 1748 il suo dipinto satirico O the roast beef of old England (The gate of Calais), a testimonianza di quanto questo confine sia da secoli politicamente rilevante. Nel quadro si vede un’enorme porzione di manzo destinata all’English Inn di Calais, guardata con cupidigia da francesi e scozzesi giacobiti (fuggiti in Francia dopo la fallita ribellione scozzese del 1745). La città fortificata di Calais è l’ultimo baluardo contro la minaccia di chi viene da fuori. Densa di sentimenti nazionalistici e xenofobi, la scena di Hogarth contrappone l’onesta carne dell’inglesità al perfido altro. Oggi lo straniero che sbarca sulle coste britanniche può essere afgano, siriano o eritreo, giunto qui in cerca di sicurezza, ma non per questo meno “invasore”. Da tempo questa rotta è stata percorsa dai migranti, dagli ugonotti nel seicento agli ebrei all’inizio del novecento ai kosovari alla fine degli anni novanta. Le fortificazioni non sono mai state quello che sembravano. I confini sono sempre stati porosi.
La realtà umana di questi viaggi è evocata da un paio di valigie verdi e gialle, collegate da lunghe ciocche di capelli, nell’opera Exodus II (2002) dell’artista britannica-palestinese Mona Hatoum. Hatoum realizza un’arte dello sfollamento che coglie, su un piano intimo e domestico, l’esperienza di chi è costretto a fuggire da conflitti, violenze o persecuzioni. Le ciocche di capelli testimoniano i fragili legami rimasti con la propria casa. Anche se un migrante raggiunge la sicurezza dall’altra parte del mare, il legame con il suo passato resiste. La tangibilità di questi legami è stata indagata da Zarina Hashmi, artista indiana-americana musulmana morta nel 2020, in Letters from home (2004), una serie di otto stampe monocromatiche su blocchi di legno e metallo ispirate alle lettere che la sorella le aveva scritto in urdu. Sono opere che disegnano una mappa dell’identità fratturata del migrante, conciliando senso di perdita e ricordi. Uno spazio che si colloca tra il dimenticare di ricordare e il ricordare di dimenticare.
Per ogni artista che affronti la brutale realtà della politica di estrema destra, dei sistemi capitalistici e della violenza alle frontiere la sfida sta nel trattare questi temi con sensibilità e attenzione. Gli aspetti reali delle migrazioni forzate spesso occupano uno spazio problematico tra le pareti bianche di una galleria e stridono con un pubblico che sa poco o niente dei soggetti presentati. Da quando è esplosa la “crisi dei migranti”, a volte l’arte ha ceduto alle tendenze, cadendo quindi in una dimensione di sfruttamento. Alla Biennale di Venezia del 2019 Christoph Büchel ha presentato l’opera Barca nostra che esponeva un’imbarcazione naufragata nel 2015 nel Mediterraneo tra la Libia e Lampedusa con molte centinaia migranti a bordo. Solo 28 persone erano sopravvissute. La barca è stata esposta senza nessuna contestualizzazione, senza testi di accompagnamento, privando così i naufraghi di umanità e inducendo i visitatori a fotografarsi davanti all’opera, in un crudo incontro tra due mondi diversi.
Lontano da casa
Conosco a fondo la sensazione che si prova quando si è costretti a lasciare la propria casa; l’esperienza non ti abbandona mai. Sono nato a Hargeisa, in Somalia, e nel 1988, quando avevo tre anni, la città mi ha sputato fuori. Mentre nei cieli oscurati i caccia sfrecciavano sganciando bombe, mia madre si affannava a scavare una buca fuori casa per seppellire le foto di famiglia sotto un albero dove pensava di poter tornare. Non è mai tornata, e di quella casa non resta più niente. Resistono solo la perdita e i frammenti di memoria. Quando cerco immagini della guerra civile in Somalia, m’imbatto in bambini malnutriti e città distrutte che non mi avvicinano alle fotografie in quella buca. Il lavoro del fotografo somalo Mustafa Saeed invece mi porta più vicino ai miei ricordi perduti e al me stesso di tre anni. In Monument (che fa parte della serie Home and me del 2014), scattata appena fuori Hargeisa, Saeed rievoca la bellezza del paesaggio somalo, mostrando un albero di acai sullo sfondo delle vaste terre aride della savana. Le sue immagini mi provocano una risposta quasi sensuale. Il modo in cui raffigurano i rassicuranti rituali della casa somala mi ricordano quando mangiavo il fegato a colazione o bevevo lo shah, un tè speziato tipico della Somalia, o accendevamo il dabqaad, o girgiri, un bruciatore di incenso.
In somalo la parola buufis significa “soffiare” o “gonfiare”. Fa riferimento all’atto spirituale della migrazione in una cultura che per decenni è stata definita dagli spostamenti forzati del suo popolo, dopo l’inizio della guerra civile nel 1988. Attraversare i confini, imbarcarsi su gommoni e sopravvivere a viaggi pericolosi sono profondi atti non solo di sopravvivenza ma anche d’immaginazione. Anche se molti continuano a morire inutilmente, sono comunque spinti dall’idea di un futuro diverso quando si mettono in viaggio. Fare arte è un atto altrettanto immaginativo e condivide con questi viaggi attraverso i confini e il mare aperto un profondo senso di speranza. ◆ gim
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Questo articolo è uscito sul numero 1533 di Internazionale, a pagina 81. Compra questo numero | Abbonati