Le terre da pascolo, vaste distese dominate da erba, arbusti e alberi radi, non sono luoghi improduttivi dove allevatori taciturni portano il bestiame e animali selvatici brucano. Ospitano circa un quarto della popolazione mondiale, sfamano il 75 per cento del bestiame e danno un contributo importante a molte economie, soprattutto dei paesi meno industrializzati. Assorbono tra il 10 e il 30 per cento dell’anidride carbonica totale, ma il loro ruolo nella lotta alla crisi climatica è sottovalutato.
Dopo aver trascurato per decenni i popoli dediti alla pastorizia, fino a sottovalutarne la cultura, oggi gli esperti cominciano a integrare la scienza con il cosiddetto sapere ecologico tradizionale. Un’ecologa mongola e il suo gruppo di ricerca sono all’avanguardia di questa rivoluzione.
Secondo gli scienziati, la steppa mongola si sta avviando verso un punto di non ritorno ecologico e culturale, perché il cambiamento climatico e l’aumento delle terre da pascolo e del bestiame hanno trasformato o fatto scomparire alcune specie vegetali. Bisogna quindi agire rapidamente per ridurre la pressione sulle economie locali e sostenerle nel processo di adattamento ai cambiamenti in corso.
Tunga Ulambayar, che dirige la sede mongola della Zoological society di Londra, si batte per la conservazione dell’ambiente in Mongolia dagli anni novanta, quando il paese è passato da un’economia socialista a una di mercato. È coinvolta in progetti di ricerca e monitoraggio sulla pastorizia, la gestione delle risorse naturali e la salvaguardia della fauna e della flora selvatiche.
La studiosa abbina i dati scientifici al sapere ecologico tradizionale. Tenere insieme grafici, sondaggi e intuito dei pastori è tutt’altro che facile, ma lo considera indispensabile per tutelare gli ecosistemi e i loro benefici per l’umanità.
Ulambayar spiega che l’urbanizzazione ha accentuato le distanze tra le città e le campagne alimentando l’errata convinzione che le zone rurali siano disabitate e improduttive. Invece, spiega, i pascoli “danno sostentamento e sicurezza a due miliardi di persone”, garantendo cibo, materie prime e combustibile, oltre a offrire protezione dalle calamità naturali. I pastori mongoli hanno sviluppato la capacità di sopravvivere in condizioni difficili contribuendo all’economia nazionale con la carne, la produzione di cashmere e il turismo. “Dal punto di vista economico è un sistema molto efficiente”, spiega.
I frequenti episodi di siccità, lo scioglimento del permafrost e gli inverni rigidi incidono su aspetti sociali ed economici, per esempio provocano uno sfruttamento eccessivo dei pascoli o fanno aumentare il valore di prodotti come il cashmere, il principale bene d’esportazione della Mongolia dopo i minerali.
Paesaggi e risorse
I centri di ricerca sono pochi e le infrastrutture limitate. Ed è qui che entra in gioco il team di Ulambayar, che integra conoscenze scientifiche e metodi tradizionali per monitorare paesaggi e risorse. Il dialogo tra pastori, scienziati e politici può dare risultati importanti. “Puntiamo sull’analisi partecipata dei problemi”, dice la studiosa. “Adoperiamo il sapere e l’esperienza di tutti, scienziati e pastori. In sostanza riuniamo le famiglie in una iurta e gli chiediamo di mappare le rispettive zone di pascolo e le risorse. Questo ci permette di conoscere la percezione che gli abitanti hanno delle loro risorse”.
Zone che nelle foto aeree sembrano povere possono essere invece ricche di erbe pregiate per i pastori. “Per tutelare adeguatamente l’ambiente ecologi e pianificatori hanno bisogno di queste informazioni. Molti considerano la pastorizia una pratica inutile, legata al passato, ma gli scienziati cominciano a capire che è un modo efficiente di gestire le risorse, soprattutto per le economie meno industrializzate”, conclude Ulambayar. “Per questo chiediamo l’istituzione di un anno internazionale della pastorizia. Dopotutto il 90 per cento dei sistemi legati a quest’attività si trova nei paesi in via di sviluppo, ed è arrivato il momento di riconoscere l’importanza del sapere ecologico tradizionale”. ◆ sdf
Internazionale pubblica ogni settimana una pagina di lettere. Ci piacerebbe sapere cosa pensi di questo articolo. Scrivici a: posta@internazionale.it
Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale, a pagina 128. Compra questo numero | Abbonati