A ppena recuperati i corpi delle persone morte nell’incendio di un grattacielo scoppiato lo scorso 24 novembre a Urumqi, la capitale dello Xinjiang, la rabbia dei cittadini in lutto è esplosa. Prima sul web, dove come di consueto censori e utenti hanno giocato al gatto e al topo. E dove anche questa volta il sarcasmo dadaista dei cittadini è servito per aggirare i controlli.

Il Partito comunista cinese (Pcc) lo ribadisce in continuazione: internet dev’essere uno spazio positivo. Così sono diventati virali post come questo: “Ottimo, ottimo, ottimo, ottimo, ottimo”; “Sissignore, sissignore, sissignore, sissignore”; “Fantastico, fantastico, fantastico, fantastico”. Qualcuno ha pubblicato decine di volte “Ok!”, mentre altri utenti hanno ripubblicato un articolo censurato, sostituendo i caratteri con dei quadratini neri. Ma anche quest’iniziativa è stata censurata.

Il 26 novembre, però, è successo l’impensabile: da internet la protesta è approdata nelle strade. A Shanghai, che da Urumqi dista più di quattromila chilometri, un ragazzo è entrato in un centro commerciale con un cartello che recitava: “Sapete già cosa voglio dire”. La polizia lo ha portato via, ma ormai le cose cominciano a muoversi un po’ ovunque in Cina. A Nanchino, a Xi’an, a Wuhan, a Guang­zhou e anche nella capitale Pechino, il manifestante di Shanghai ha trovato dei compagni, per lo più giovani, che hanno lasciato case e dormitori universitari per scendere in strada e si sono presto resi conto di non essere soli. Consapevoli di vivere in un paese in cui le libertà d’opinione e d’espressione sono garantite solo quando coincidono con la linea dettata dal partito, i manifestanti hanno esibito in silenzio dei fogli bianchi, come a Hong Kong nel 2020 dopo l’introduzione della legge sulla sicurezza nazionale.

In Cina il bianco è il colore del lutto. In una serie di fotografie si vede un uomo a cui è strappato di mano il foglio. Rimane immobile, con i pugni davanti al petto che sembrano ancora stringere il suo messaggio invisibile. La stessa sera a Shanghai una folla con delle candele si è data appuntamento alle 11.24 in via Urumqi, esplicitando attraverso la scelta del luogo e dell’orario la volontà di ricordare le persone rimaste intrappolate nell’incendio. Su un pezzo di cartone qualcuno aveva scritto: “Che riposino in pace”. Tre delle vittime erano bambini.

Questione di sfiducia

Molti dubitano della versione ufficiale della vicenda e sospettano che il severo lockdown abbia ritardato l’intervento dei pompieri. Ovunque in Cina tutti hanno visto che per il governo contenere la diffusione del covid conta più della sicurezza e della salute dei cittadini. Tutti sanno che i quadri locali del partito hanno ordinato di sprangare le porte delle abitazioni e di recintare gli edifici per impedire agli abitanti di violare la quarantena. La gente è esausta e arrabbiata. Su un cartello qualcuno ha scritto: “Basta”.

Un operatore sanitario. Pechino, Cina, 27 novembre 2022 (Kevin Frayer, Getty)

Nelle piazze, le persone si facevano coraggio a mano a mano che aumentavano. In via Urumqi, a Shanghai, cantavano a squarciagola internazionale e ancora più forte l’inno nazionale cinese: “Alzatevi, gente che non vuole essere schiava”, hanno intonato centinaia o forse un migliaio di ragazze e ragazzi. Più di settant’anni fa le stesse note fecero da colonna sonora alla rivoluzione del Pcc.

Come nelle altre città, anche a Shanghai la protesta è stata pacifica. I manifestanti gridavano: “Lunga vita al popolo!”, “Zero covid vaffanculo!”, “Libertà!”. La polizia li ha circondati ma non è intervenuta neanche quando la folla, guidata da un giovane, forse elettrizzata dal semplice fatto di essere lì e dal proprio coraggio, ha intonato in coro: “Abbasso il Partito comunista”, “Abbasso Xi Jinping!”. Solo alle cinque del mattino gli agenti hanno sgomberato i manifestanti.

“È una cosa mai vista”, ha detto un imprenditore europeo che vive in Cina da più di quindici anni e ha assistito alle proteste di via Urumqi fino all’alba del 27 novembre: “Qualcosa sta succedendo”. Al telefono l’uomo d’affari, che per cautela vuole rimanere anonimo, spiega che all’inizio della pandemia il Pcc aveva stretto un patto con il popolo: “Qui siete più al sicuro che nel resto del mondo, perché noi vi proteggiamo dal virus”.

La strategia “zero covid” ha funzionato per due anni. Di tanto in tanto qualcuno finiva in quarantena, ma già nell’estate 2020 la maggioranza dei cinesi era tornata a una vita quasi normale. Il covid era un problema degli occidentali, mentre i cinesi erano protetti dal loro governo. Le cose sono cambiate con l’arrivo della variante omicron, più contagiosa, che all’inizio del 2022 ha causato un picco di casi. Le autorità sanitarie faticano a tenerne traccia e c’è chi dice che il governo stia provando a catturare il vento. Ora sono i cinesi che vedono gli altri paesi riaprire. Il mondo s’incontra ai mondiali del Qatar senza indossare mascherine mentre la Cina precipita di continuo in rigidi lockdown, per colpa dei quali molti cittadini hanno perso il lavoro, il reddito e ogni fonte di sostentamento.

Negli ultimi tempi la frustrazione e lo sconforto stanno colpendo soprattutto le ragazze e i ragazzi, il cui tasso di disoccupazione sfiora il 20 per cento, secondo i dati del governo. Tra le nuove generazioni la parola dell’anno è l’ideogramma ran, un riferimento all’inglese run: correre, possibilmente via dal paese.

Ma la frustrazione non riguarda solo i giovani. Il 23 novembre si è diffusa in tutto il mondo la notizia delle proteste represse con la violenza negli stabilimenti della Foxconn di Zhengzhou, che con i suoi duecentomila lavoratori è la fabbrica più grande per la produzione degli iPhone in Cina. Ad accendere le contestazioni sono state le promesse non mantenute dai dirigenti: il ritardo nei pagamenti ha spinto centinaia di giovani operai a ribellarsi. Tra loro c’è Hu (nome di fantasia) che accende la videocamera solo dopo essersi sistemato i capelli. Ha l’aria stanca e un paio di occhiali tondi che gli scivolano continuamente sul naso. È arrivato a Zhengzhou solo due settimane fa, percorrendo in pull­man i duecento chilometri dalla sua città, Chengdu, dove i salari sono decisamente più bassi. “Qui il lavoro è faticoso, ma considerato quanto si guadagna bisogna tener duro”. Per lui questo lavoro era un’opportunità, ma si è trasformato in un incubo quando centinaia di poliziotti in tuta protettiva bianca hanno picchiato gli operai. Hu dice di aver visto feriti gravi stesi per terra, mentre molti lavoratori sono stati arrestati.

La scintilla dallo Xinjiang

In Cina le proteste ci sono sempre state. Secondo il ministero della pubblica sicurezza ogni anno se ne contano decine di migliaia. Contadini, operai, migranti e studenti scendono in piazza per gridare il proprio scontento. Ma di solito le manifestazioni hanno in comune una cosa: sono locali e isolate, e la censura riesce a evitare che raggiungano l’opinione pubblica. “In primavera avevo la sensazione che il resto della Cina non sapesse nulla del lockdown brutale che c’è stato qui a Shanghai”, osserva l’uomo d’affari.

La novità delle proteste di questo fine settimana è che le persone in via Urumqi a Shanghai, gli studenti a Nanchino e a Xi’an, e i manifestanti di Wuhan sapevano quello che stava succedendo nelle altre città. Forse la notte del 26 novembre la censura è stata sopraffatta. Invocare pubblicamente la fine del partito è una cosa che in Cina non si vedeva dal 1989, durante le manifestazioni a piazza Tianan­men. È probabile che il partito sia in stato di massima allerta. “Una scintilla”, diceva Mao Zedong, “può dar fuoco a tutta la prateria”. E la scintilla è partita proprio dallo Xinjiang, la regione nota per le persecuzioni degli uiguri musulmani commesse dal governo di Pechino.

Xixi è una donna che vive nel distretto di Yili, non lontano dalla capitale Urumqi. In videochiamata racconta che qualcosa dentro di lei si è rotto. Sui social network la gente condivideva le immagini dell’incendio, con le fiamme che uscivano dalle finestre del quindicesimo piano del grattacielo e le persone che gridavano disperate. I camion dei pompieri erano fermi, lontani dall’edificio, che ha continuato a bruciare per ore. Urumqi è in lockdown da mesi. Ai pompieri è stato proibito di avvicinarsi? A farle ancora più rabbia, dice Xixi, è il fatto che ora il governo locale dà la colpa della tragedia alle vittime. In una conferenza stampa ha dichiarato che gli abitanti erano impreparati a fronteggiare l’incendio e che avrebbero potuto salvarsi da soli ma non lo hanno fatto. Xixi sembra sconvolta. Sul web, dice, le testimonianze sono state censurate. A un suo amico che lavora come impiegato pubblico è stato vietato di usare la parola fuoco sui documenti online.

Ad agosto Yili è stato il primo distretto dello Xinjiang a entrare in lockdown. Era il 15 o il 16 quando il governo locale ha blindato il suo quartiere? Xixi non lo ricorda più. All’improvviso non si è più potuto uscire né andare a fare la spesa. Ogni tre o quattro giorni il comune consegna un sacco con verdure, riso o farina che non basta neanche a sfamare tutti. Da mesi i test antigenici sono il suo unico svago: ogni mattina alle dieci gli addetti in tuta bianca bussano alla porta di Xixi per eseguire un test del covid, e anche se in città i casi sono pochissimi il governo continua a tenere tutto chiuso. “Nello Xinjiang la maggior parte delle persone è arrabbiata”, spiega Xixi. Chiunque rimanga bloccato in casa per quasi quattro mesi a un certo punto impazzisce: “Con l’incendio abbiamo capito che se anche questa volta il fuoco ci ha risparmiato, la prossima potrebbe toccare a noi. Ecco perché protestiamo.”

Le scintille partite da Urumqi sabato sono arrivate un po’ ovunque nel paese. Per esempio alla Communication university di Nanchino dove gli studenti, al grido di “Viva il popolo!”, hanno trasformato alcune aree del campus in un mare di luci, usando le torce degli smartphone. È diventato virale il video in cui si vede uno studente originario dello Xinjiang che esorta i suoi compagni: “Finora sono stato vigliacco, ma ho trovato il coraggio di alzare la testa per quelli che sono morti”. All’università di Pechino sono apparse scritte sui muri della mensa: “Vogliamo la libertà, non i lockdown!”. Ag­l­i strateghi del Pcc deve sembrare un incubo, perché è proprio in questo campus che nel 1989 cominciarono le proteste. Sui social network è diventato famoso il protagonista di alcuni video girati a Chongqing. Dopo aver radunato una folla di passanti, l’uomo ha cominciato a lamentarsi dei prezzi esorbitanti delle carote e ha concluso il suo discorso dicendo che la mancanza di libertà e la povertà sono le malattie più gravi che affliggono il mondo: “In Cina soffriamo di entrambe”. Infine ha esclamato: “Libertà o morte!”. Sul suo zaino c’era la S di Superman. Per questo in rete è stato soprannominato “Super-fratello”.

Il Pcc al banco di prova

Nessuno però pensa che all’orizzonte ci sia una rivoluzione imminente. Ai manifestanti mancano organizzazione e obiettivi comuni, mentre il potere del partito e quello del suo apparato di sorveglianza teconologico sono sconfinati. Eppure queste proteste hanno stupito tutti anche perché si sono svolte ad appena un mese dalla conclusione del ventesimo congresso del Pcc. L’occasione doveva cementare ulteriormente la figura di Xi Jinping come “leader del popolo”, ma si è rivelata l’ennesima amara delusione per i cittadini cinesi. Allo stesso modo la promessa di imminenti allentamenti dei lockdown, annunciati dal governo l’11 novembre ma mai attuati, ha deluso le speranze di molte persone, e la frustrazione è tornata a crescere.

Le proteste mostrano l’inconsistenza di una propaganda che, nonostante la repressione, continua a rappresentare la Cina come un baluardo di armonia e stabilità. Nel profondo della società qualcosa si sta muovendo. “Ho vissuto qui per trent’anni e non ho mai visto esprimere così schiettamente e per tanti giorni di fila una rabbia apertamente indirizzata contro il governo”, scrive su Twitter il linguista statunitense David Moser. “Per il Pcc è un banco di prova importante”. La mattina del 27 novembre a Shan­ghai si sono fronteggiati di nuovo manifestanti, poliziotti e curiosi. Le forze dell’ordine hanno chiuso via Urumqi e arrestato chi intonava slogan, mentre molti si sono messi in posa per un selfie davanti alla targa con il nome della via. Era sera quando su ordine delle autorità la targa è stata rimossa da alcuni operai. Sperano che nessuno riesca più a trovare via Urumqi? Credono di cancellare in questo modo il ricordo di una nottata memorabile? Da Pechino e Shanghai continuano ad arrivare nuove foto e nuovi video: si manifesta in altre strade, impugnando i soliti fogli bianchi. E ancora una volta non si è soli. ◆sk

Da sapere
Le tappe della protesta
Le città in cui sono scoppiate le proteste, che hanno coinvolto anche 79 campus universitari. Fonte: The Initium

18 settembre 2022 Nel Guizhou, regione della Cina meridionale, un autobus diretto a un centro per la quarantena precipita in un burrone: muoiono 27 persone.

13 ottobre A Pechino due striscioni contro le misure anti-covid chiedono le dimissioni di Xi Jinping.

Fine ottobre Decine di migliaia di lavoratori della Foxconn abbandonano gli stabilimenti di Zhengzhou dopo la scoperta di alcuni casi di covid.

21 ottobre-4 novembre tre persone muoiono a causa dei ritardi nei soccorsi dovuti alle misure anti-covid.

5 novembre A Ruili, al confine con la Birmania, gli abitanti protestano per il durissimo lockdown.

23 novembre La polizia reprime con la violenza le rivolte dei lavoratori scoppiate all’interno degli stabilimenti Foxconn di Zhengzhou.

24 novembre A Urumqi, nello Xinjiang, almeno dieci persone perdono la vita in un incendio di un grattacielo in isolamento.

25 novembre Il governo di Urumqi scarica la responsabilità sulle vittime. Gli abitanti della città scendono in strada a manifestare.

26-28 novembre Studenti e cittadini scendono in piazza in molte città e università della Cina.


Da sapere
Un vicolo cieco

◆ Il presidente cinese Xi Jinping dovrà fare una scelta: continuare la politica “zero covid”, nonostante il crescente dissenso dei cittadini, o mettere fine ai lockdown. La decisione non è semplice. Secondo Bloomberg il costo di lockdown, tamponi e tracciamento, e le loro conseguenze sulle aziende e la filiera di distribuzione, supera i 46 miliardi di dollari al mese, ovvero il 3,1 per cento del pil della Cina. Ma riaprire non sarebbe indolore. Uno studio condotto da ricercatori cinesi e statunitensi pubblicato su Nature Medicine prevede almeno un milione e mezzo di morti in caso di allentamento delle misure anti-covid. Intanto, i contagi stanno aumentando esponenzialmente, i posti in terapia intensiva sono appena 3,6 ogni centomila abitanti (in Italia sono quattordici) e solo il 70 per cento delle persone con più di sessant’anni ha ricevuto la terza dose di vaccino.


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Questo articolo è uscito sul numero 1489 di Internazionale, a pagina 20. Compra questo numero | Abbonati