Nel documentario Slay, proiettato di recente in alcune sale cinematografiche e che si può vedere su Netflix e altre piattaforme, Rebecca Cappelli racconta un’industria fondamentale per il settore della moda, quella che tratta la pelle degli animali. Il quadro che emerge – dallo sfruttamento dei lavoratori in India e in Cina per la produzione dei materiali, fino alla truffa della pelle made in Italy, che non è italiana ma è spacciata come tale per alcune follie burocratiche – è impressionante. Si pensa spesso che occuparsi di altri animali significhi trascurare questioni più rilevanti che hanno a che fare con l’etica o la società umana. È falso: come mostra Slay, l’industria del pellame – che non lavora gli scarti di quella della carne ma è una realtà a sé – è un concentrato di questioni che riguardano tutti: garanzie truffa ai consumatori, omertà sulla provenienza e l’etica dei materiali, sfruttamento e sofferenze di milioni di animali a cui non è data attenzione, inquinamento da sostanze chimiche usate per raffinare le pelli, diritti negati a lavoratori e lavoratrici, diffusione di tumori nei villaggi di varie regioni in India, Cina e Africa, in cui i pellami sono prodotti e poi spediti in Italia o in Francia per essere marchiati così da indicarne il pregio europeo.
In mezzo a queste tenebre, una luce: i nuovi materiali, le cosiddette finte pelli, come quelle usate dalla stilista britannica Stella McCartney, e l’idea che etica ed estetica debbano camminare insieme. Unire buongusto e morale: questa sì che sarebbe vera eleganza. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1506 di Internazionale, a pagina 98. Compra questo numero | Abbonati