◆ Il film A complete unknown su Bob Dylan regala due ore di sospensione dell’incredulità. Ma tocca anche temi universali: quello del rapporto con i padri e con la purezza della musica folk. Dylan dichiarò che non c’è niente di rassicurante nel folk. Che è pieno di leggende, di bibbia, di fantasmi e di tutto ciò che non è altro che mistero. In una scena del film, in un locale, si discute su cosa sia country e cosa folk. Annosa disputa tra il senso di appartenenza conservatore dell’uno e la purezza in forma anche d’ideologia politica dell’altro. Per me il country è la pianta, la bandiera, il visibile. Il folk è la radice, l’ombra, ciò che non si vede ma che affiora dall’inconscio, che attraversa le culture legate alla terra e dà frutti diversi a seconda di dove emerge, ma che in fondo parla la stessa lingua segreta. Giovanna Marini, che ci manca molto e aveva vissuto quel periodo aureo, disse che “Zimmy”, come lo chiamavano, faceva sempre la stessa cellula musicale: “Eravamo indignati, poi fece Blowin’ in the wind e ci trafisse. Ci siamo detti: poteva continuare a fare le sue melopee, adesso toccava farlo cantare!”. Marini diceva anche che nella stagione del folk revival italiano loro, che studiavano le canzoni popolari, discutevano su ogni utilizzo, perché tutto era vissuto come atto ideologico. E aggiungeva: “Ora l’ideologia non c’è più e mi spiace, perché è un pensiero organizzato in cui credere”.
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Questo articolo è uscito sul numero 1601 di Internazionale, a pagina 12. Compra questo numero | Abbonati