Aggrappato alla bara del figlio, Vincenzo Agostino giurò che non si sarebbe tagliato barba e capelli fino a quando non avrebbe ottenuto giustizia. Era il 10 agosto 1989, e cinque giorni prima due sicari della mafia su una moto avevano ucciso il poliziotto Antonino Agostino e sua moglie Ida, incinta di cinque mesi.
La coppia era stata colpita in pieno giorno sul lungomare di Villagrazia di Carini, in provincia di Palermo. Vincenzo aveva assistito all’agonia del figlio dopo che gli assassini avevano svuotato un intero caricatore di pallottole su di lui. E aveva visto la nuora, colpita al cuore, avvicinarsi al marito nel vano tentativo di confortarlo.
A giugno sono state rese note le motivazioni della sentenza che a marzo di quest’anno ha condannato il boss della mafia Nino Madonia all’ergastolo. Le carte hanno rivelato che Antonino Agostino fu ucciso perché stava indagando su alcuni mafiosi latitanti. È un piccolo passo avanti, anche se, dopo trent’anni, sono ancora tanti i nodi da sciogliere e molti dei responsabili di quel delitto sono ancora a piede libero.
La sentenza ha riacceso il dibattito in Italia sulla lentezza dei processi e sulla straziante battaglia dei parenti delle vittime di mafia.
Trentadue anni dopo Vincenzo ha mantenuto la sua promessa: la lunga barba gli arriva ormai al petto ed è diventata un simbolo della resistenza ai boss mafiosi e della lunga ricerca della verità di centinaia di parenti delle vittime del crimine organizzato in Italia.
Secondo un rapporto dell’associazione antimafia Libera, quasi l’80 per cento dei circa seicento casi di vittime innocenti del crimine organizzato in Italia è ancora parzialmente o del tutto irrisolto. La maggior parte delle indagini è stata chiusa per mancanza di prove, mentre molte sono prigioniere di processi senza fine e decine sono i procedimenti che invece non sono mai cominciati.
Il dolore e la frustrazione accumulati negli anni hanno generato una serie di problemi psicologici nei parenti delle vittime: depressione, attacchi di panico, pensieri suicidi e disturbi da stress postraumatico. Il Guardian ha visitato quattro regioni dell’Italia meridionale con una tradizione di crimine organizzato, intervistando genitori e figli di vittime di mafia che, decenni dopo la morte dei loro cari, lottano perché i casi vengano riaperti.
Tradire il paese
Per più di trent’anni Vincenzo Agostino ha inseguito senza sosta i pubblici ministeri per convincerli a riaprire le indagini sulla morte del figlio, che sono state archiviate decine di volte. Durante le inchieste, emerse che Antonino, nel corso della terribile guerra che la mafia siciliana aveva lanciato in quegli anni contro le autorità, lavorava come agente segreto e aveva il compito di trovare i mafiosi latitanti. La sua morte mise in luce per la prima volta i rapporti e la connivenza tra i servizi segreti e i boss su cui ancora oggi indagano i magistrati.
“Una cosa è chiara: qualche alta carica dello stato tradì mio figlio Antonino e informò la mafia sul suo ruolo di agente segreto. Chi sono gli uomini dello stato disonesti che hanno tradito questo paese e condannato a morte poliziotti e procuratori? No, non è ancora arrivato il momento di tagliarmi la barba”, dice Vincenzo.
In un confronto all’americana, nel 2016, Vincenzo ha individuato un collega del figlio implicato nell’omicidio. Per questo, a 86 anni, è costretto a vivere sotto protezione. “Assistere alla morte del proprio figlio, della nuora e del nipote che lei portava in grembo ti distrugge la vita, mi ha aperto una ferita nel cuore grande come il cratere dell’Etna”, dice. Lui e sua moglie Augusta hanno guidato una battaglia per scoprire chi fossero gli assassini di Antonino. Augusta è morta nel 2019. Sulla sua lapide, posta accanto a quella del figlio, nel cimitero di Santa Maria di Gesù, a Palermo, c’è scritto: “Qui giace Augusta, madre di Antonino, che attende ancora verità e giustizia”.
Quando Angelina Landa capì che la polizia non stava indagando sulla morte di suo padre decise di prendere in mano la situazione
In un altro cimitero, a più di trecento chilometri di distanza, nel territorio della ’ndrangheta calabrese, un altro padre bussa alla lapide del figlio. Chiede se può sentirlo. Gli domanda come si sta lassù in paradiso. Il padre si chiama Martino Ceravolo, e non ha pace da quando la ’ndrangheta ha ucciso per errore suo figlio Filippo, di 19 anni, il 25 ottobre 2012 nei pressi di Soriano Calabro. “Quella sera Filippo doveva andare a trovare la sua fidanzatina che viveva in un paesino ad appena quattro chilometri da qui”, racconta Martino, 52 anni, che gestiva un chiosco di dolciumi con il figlio. “La sua auto era guasta e cercava un passaggio. Un ragazzo di Soriano si offrì di accompagnarlo. Sfortunatamente finì nella macchina sbagliata la sera sbagliata”.
In quel periodo all’interno della ’ndrangheta infuriava una violenta guerra tra i clan Emanuele e Loiero. Filippo non poteva sapere che il nome di Domenico Tassone, l’uomo che gli aveva offerto un passaggio, era sulla lista di morte di uno dei due clan. Erano circa le 22 quando quattro uomini circondarono l’auto di Tassone e cominciarono a sparare. I proiettili destinati a Tassone colpirono Filippo alla testa e al petto.
“Quando arrivai sul luogo della sparatoria, sentii il mondo crollarmi letteralmente addosso”, dice Martino, che prende tranquillanti ogni giorno per far fronte ai suoi attacchi di panico. “Tassone uscì dall’auto urlando: ‘Volevano ammazzare me’. Ma lui era miracolosamente illeso, mentre Filippo giaceva a terra, in un lago di sangue”.
Il caso di Filippo è stato archiviato per mancanza di prove, nonostante i pubblici ministeri abbiano identificato i quattro uomini responsabili dell’attentato, che continuano a dettare legge in quei territori. “Questi criminali hanno spezzato non solo la vita di mio figlio, anche le nostre”, dice Martino.
Una delle figlie di Martino soffre di depressione, e sua moglie ha tentato il suicidio tre anni fa dopo che il caso è stato nuovamente archiviato. “Siamo rimasti soli, senza alcun supporto psicologico”, dice Martino. “Io stesso ho pensato più volte al gesto estremo. Ho pensato di darmi fuoco davanti al ministero della giustizia”.
L’impatto psicologico sulle famiglie può essere devastante, soprattutto in caso di morte presunta, quando i corpi delle vittime non vengono mai recuperati. I familiari più stretti che vivono in un limbo costante possono sviluppare gravi problemi psicologici, come la depressione o l’alcolismo.
“Dopo la morte di mio padre ho sofferto per anni di attacchi di panico e ansia, mentre mia madre ha convissuto con la depressione fino alla morte”, racconta Daniela Marcone, 52 anni, vicepresidente di Libera.
La legge del silenzio
Il padre di Daniela, Francesco, fu ucciso la sera del 31 marzo 1995 nella tromba delle scale del suo condominio, a Foggia, da un sicario della mafia foggiana. Era il direttore dell’ufficio del registro di Foggia e aveva denunciato la corruzione nel suo ufficio e l’evasione fiscale di diverse aziende. Nonostante sia stato un omicidio di mafia da manuale il suo caso rimane irrisolto. “Conosco madri che hanno tentato di contattare i boss supplicandoli di rivelargli dove si trova il corpo del figlio, solo per dargli una degna sepoltura”, racconta Daniela.
L’attesa della giustizia può diventare così frustrante che molti parenti delle vittime si sono trasformati in pseudoinvestigatori. Quando Angelina Landa capì che la polizia non stava facendo nulla per indagare sulla morte di suo padre, Michele, 62 anni, una guardia giurata uccisa presumibilmente dalla camorra, decise di prendere in mano la situazione.
Nel 2006 il clan dei Casalesi, che ha ispirato la serie televisiva Gomorra, si era dedicato alla redditizia attività del furto di batterie industriali. Michele era stato incaricato di sorvegliare un ripetitore della Vodafone vicino a Mondragone, in Campania, un territorio controllato dalla camorra. Il suo corpo carbonizzato è stato ritrovato il 5 settembre 2006 all’interno della sua piccola Fiat.
“Io e miei fratelli decidemmo che dovevamo agire al più presto”, racconta Angelina, 48 anni, insegnante di scuola elementare. “Cinque giorni dopo la sua scomparsa, scavalcammo la recinzione della rimessa di auto dove la polizia aveva portato il veicolo incendiato di mio padre. Tra le ceneri trovammo le sue ossa. A cinque giorni della sua morte, non avevano nemmeno tolto i suoi resti dall’auto”.
Gli investigatori hanno chiuso il caso, dopo alcuni mesi, per mancanza di prove.
Un altro serio ostacolo alla risoluzione dei casi è l’_omertà _(in italiano nell’originale), il codice del silenzio della mafia. “I mafiosi raramente testimoniano contro altri mafiosi, anche se tra loro sono rivali in guerra. ”, dice Marcone.
“In un omicidio di mafia, è difficile trovare testimoni anche tra la gente comune, soprattutto nei piccoli paesi dove le mafie sono molto radicate e l’omertà è un fenomeno sociale. La gente ha paura di testimoniare perché teme le reazioni dei boss”, afferma.
“La legge del silenzio è la base della forza della mafia”, dice il procuratore nazionale antimafia Federico Cafiero De Raho. “Le indagini sugli omicidi di mafia possono essere davvero complicate. Un omicidio ordinato dai boss non ha mai un solo esecutore, ma una catena di responsabili. Questo rende le indagini difficili, a meno che un mafioso arrestato non decida di parlare”.
Paradossalmente, a volte la speranza di riaprire i casi di mafia è nelle mani delle stesse persone che hanno commesso gli omicidi: mafiosi che vengono arrestati e decidono di collaborare con i procuratori in cambio di una riduzione di pena. Negli ultimi anni, in questo modo è stata fatta luce su numerosi omicidi irrisolti.
“Sfoglio il giornale ogni mattina nella speranza di trovare una notizia su un nuovo mafioso che ha deciso di collaborare con le autorità”, dice Martino Ceravolo. “È frustrante, ne sono consapevole. Ma vedi, io non ho mai chiesto vendetta, solo giustizia. E fino a quando non l’avrò ottenuta, continuerò a bussare sulla lapide di mio figlio, per fargli sapere che non mollo. Senza giustizia non c’è pace. Né per me né per mio figlio”. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1418 di Internazionale, a pagina 36. Compra questo numero | Abbonati