Pronunciandosi sulle accuse di genocidio contro Israele il 26 gennaio la Corte internazionale di giustizia (Cig) ha fatto storia, e questa non è un’esagerazione. Il più alto tribunale delle Nazioni Unite ha ritenuto “plausibile” che Israele abbia commesso contro i palestinesi di Gaza degli atti che potrebbero violare la convenzione sul genocidio. Anche se quello della corte non è ancora un verdetto, e ci vorranno forse anni per averne uno, la Cig ha stabilito che il caso portato alla sua attenzione dal Sudafrica rientra nella sua giurisdizione, respingendo l’argomentazione principale di Israele.
La corte ha ordinato delle misure provvisorie per proteggere la popolazione di Gaza dal rischio di un genocidio. Tra queste, Israele deve assicurarsi “con effetto immediato” che le sue forze armate non commettano nessun atto proibito dalla convenzione sul genocidio, e che siano prese “tutte le misure” per prevenire e punire l’istigazione esplicita e pubblica al genocidio contro i palestinesi a Gaza.
In questa fase il procedimento si riduceva a un’unica questione: la Cig doveva stabilire se il Sudafrica avesse presentato un ricorso ammissibile contro Israele e, su queste basi, mandare avanti il procedimento. Tutto il resto è secondario. Su questo punto cruciale, la corte è stata inequivocabile: le argomentazioni sostenute dal Sudafrica all’inizio di gennaio erano sufficientemente convincenti; la confutazione e le smentite di Israele no. Ora la Cig dovrà tenere un processo non solo per stabilire se le accuse a Israele siano plausibili, ma se il paese sia effettivamente colpevole del crimine di genocidio a Gaza.
Ed è qui che la corte ha scritto la storia. Dal 26 gennaio Israele e i suoi sostenitori occidentali non potranno più usare l’Olocausto come scudo per non rispondere dei loro crimini contro i palestinesi. L’intellettuale palestinese Edward Said, scrivendo delle difficoltà di molti occidentali a concepire Israele come uno stato in grado di commettere crimini di guerra e contro l’umanità, essendo stato creato all’indomani dell’Olocausto, descrisse i palestinesi come “le vittime delle vittime, i rifugiati dei rifugiati”. Non è più così. Oggi Israele è associato al crimine di genocidio come possibile responsabile, non come vittima. D’ora in poi le politiche di Israele nei confronti dei palestinesi saranno giudicate per quello che sono e non sulla scorta dell’ombra lunga della storia europea. La corte ha ridefinito il “mai più”. Non è uno slogan che può essere usato da Israele per commettere e giustificare crimini ai danni di altri: vale anche per le azioni di Israele, e le vittime palestinesi.
Le sei misure provvisorie ordinate dalla corte sono legalmente vincolanti, ma la Cig non è il Consiglio di sicurezza dell’Onu. Non ha modo di far valere le sue decisioni; spetta al Consiglio di sicurezza approvare una risoluzione che ne imponga l’attuazione. Eppure queste misure sono significative, compresa quella che impone a Israele di presentare alla corte entro trenta giorni una relazione su come le sta rispettando. In altre parole, Israele è alla sbarra ed è sotto osservazione. Il fatto che la corte non abbia ordinato un cessate il fuoco come richiesto dal Sudafrica – ordine che sarebbe stato semplicemente ignorato da Israele con il sostegno dei suoi sponsor occidentali – era prevedibile, e non era questo il punto del ricorso.
Infine, la decisione della corte impone degli obblighi legali anche a tutti gli altri firmatari della convenzione sul genocidio, Stati Uniti e paesi europei compresi. L’ipocrisia occidentale – su cui si basa l’attuale “ordine internazionale basato sulle regole” – non finirà presto. Tuttavia, la decisione della Cig pone le basi per chiedere conto anche ai difensori e ai sostenitori di Israele. L’attivista e politico palestinese Mustafa Barghouti ha dichiarato: “Per la prima volta in 75 anni a Israele viene tolta la sua impunità di fronte al diritto internazionale”. I responsabili saranno chiamati a rispondere delle loro azioni. Era ora. ◆ fdl
Mouin Rabbani è un esperto di Medio Oriente d’origine palestinese, nato nei Paesi Bassi. È il condirettore del sito Jadaliyya . Ha scritto questo commento per il giornale online Democracy in Exile dell’ong Dawn, che si occupa di democrazia nel mondo arabo.
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Questo articolo è uscito sul numero 1548 di Internazionale, a pagina 34. Compra questo numero | Abbonati