La raggia esce all’improvviso e si mostra nel modo peggiore. Infatti è sempre scritta male, di getto, poi cancellata e riscritta con calma. La raggia è la rabbia di un giovane che non può tornare indietro da ciò che ha fatto. Abita in una baracca nel bosco che è il posto che conosce meglio al mondo, cresciuto lì da un padre bravo solo a dormire, bere vino, picchiare e pulire il pesce. Nel bosco ci sono i quaderni, sepolti nel terreno per paura che li scoprano le guardie, c’è una volpe che ha il volto della madre del ragazzo, c’è il corpo di Nina, gettato nel fiume come un pensiero brutto. Perché “la natura del fiume è quella di portarsi via tutto quello che si prende, piglia l’acqua che nasce dalla fonte e la porta al mare o nel fiume più grande di lui, e si porta pure tutto quello che sta dentro l’acqua”. Per sopravvivere alla raggia, al rimorso e alla paura, il ragazzo chiude i suoi pensieri in dei quaderni, con una scrittura coerentemente sgrammaticata, semplice, tipica del parlato, con incursioni dialettali. I diari procedono a ritroso, riesumando ferite e conseguenze. Il romanzo incentrato sul trauma di solito non porta il lettore nel futuro, ma indietro, nel passato. La raggia non sfugge a questa regola, ma chi legge ha la sensazione di andare avanti man mano che ricompone l’ordine cronologico dei fatti. Un esordio riuscito nello stile, nella struttura, nel vuoto che lascia e nel fastidio che crea. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1467 di Internazionale, a pagina 96. Compra questo numero | Abbonati