Michela La Grotteria
Tutte le giostre che ho chiamato casa
Giulio Perrone Editore, 144 pagine, 18 euro

Nadia si è trasferita a Parigi, dopo aver vissuto in due case a Milano, durante la pandemia, e in un’Altra Città. Nadia è in fuga: “Lascio città in sequenza, a distanza più o meno regolare di due-tre anni lavorativi, senza eccedere perché le radici messe non marciscano. Lascio ogni tipo di città. Quelle che ho amato e quelle che mi hanno fatto soffrire,” scrive nel suo diario. Per tre mesi trova rifugio a Parigi, in un appartamento dell’undicesimo arrondissement che condivide con Annette. Il romanzo d’esordio di Michela La Grotteria, genovese, classe 1999, con una laurea in italianistica, è una giostra, di quelle che si alzano e si abbassano all’improvviso. Come quando parla di yoga per quasi trenta pagine, ma solo come pretesto, superato il quale si scopre la protagonista, la sua ansia, le sue paure. Quello di La Grotteria è un romanzo frammentato in forma di confessione, che racconta il rapporto con Edoardo, sbiadito dalla distanza, il lutto per un’amica morta a diciannove anni, il senso di colpa per essere viva. Una scrittura a tratti acerba, che apre però all’incertezza tipica di un’intera generazione, dall’idea di casa a quella di lavoro, dal rischio di appassire in solitudine a quello di lasciarsi scivolare addosso il futuro. ◆

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Questo articolo è uscito sul numero 1571 di Internazionale, a pagina 79. Compra questo numero | Abbonati