Una donna britannica di origini pachistane che attraversa le terre piatte da Lahore alla brughiera di Newcastle. Il libro di Noreen Masud, tradotto in italiano da Sara Reggiani, è un memoir, un’autoanalisi, un diario di viaggio (letterario, psicologico) attraverso i luoghi del sentimento, in cui l’autrice traccia un parallelismo tra i paesaggi pianeggianti in cui si avventura e la piattezza che prova anche dentro di sé. Il tono è senza orpelli, nelle prime pagine mette in guardia che la sua non è una “storia da cui trarre ispirazione”, ma racconta “ciò che accade quando la fiamma della speranza viene del tutto spenta”. Il disturbo post-traumatico complesso è un’etichetta con cui Masud è riuscita a venire a patti, ma che problematizza anche nei ringraziamenti finali: nasce da un’infanzia violenta in Pakistan e non l’abbandona nemmeno nelle sue incursioni nella natura, nei libri, in un tentativo di “derealizzazione”, che però non deriva dall’isolamento fisico in spazi remoti e disabitati, quanto da un ricongiungersi con il proprio corpo. Un corpo fatto di confronti, giustapposizioni e contraddizioni. Il linguaggio di Masud è stratificato, allegorico e profondo, come la matassa traumatica che cerca di districare. Ha il tono riflessivo delle corse in inverno, gelide, con il respiro che esce in sbuffi di vapore, che ti lasciano con le gambe doloranti e rigide, e la sensazione incredibile di essere viva davvero. ◆
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Questo articolo è uscito sul numero 1589 di Internazionale, a pagina 86. Compra questo numero | Abbonati