Una delle cose che Stephanie Rosenthal ha imparato nei suoi dieci anni di esperienza nel mondo delle gallerie londinesi è stata l’arte di fare la fila con il sorriso sulle labbra. Dopo aver lasciato il suo incarico di curatrice capo della Hayward gallery, in seguito al referendum sull’uscita del Regno Unito dall’Unione europea, questa storica dell’arte tedesca ha riportato le sue competenze nel paese dov’è nata.
Da quando Rosenthal ha assunto la direzione del Martin Gropius Bau di Berlino nel 2018, chi fa la fila per acquistare il biglietto per la galleria può sperare di essere intrattenuto e divertito da uno dei dodici “amici” che ha assunto per accogliere i visitatori. Chi non ha voglia di aspettare può entrare direttamente nell’atrio e assistere gratis a un’installazione sonora dell’artista nigeriano Emeka Ogboh, un altro simbolo del cambiamento introdotto durante la gestione di Rosenthal. Il Gropius Bau rappresentava la tradizione tedesca delle gallerie concepite come torri d’avorio inaccessibili, dove i visitatori erano più tollerati che benvenuti. E dove il personale di sicurezza faceva in modo che si sentissero tali.
Oggi l’esperienza di entrare in questo palazzo ottocentesco, al confine tra Kreuzberg e Mitte, è più simile a quella che si prova entrando in uno spazio espositivo londinese come la Royal festival hall o la Tate modern.
“Nel Regno Unito la tendenza delle gallerie d’arte è di essere poco selettive all’ingresso”, dice Rosenthal. “La domanda che ci si pone è più ‘in che modo la cultura può influenzare il nostro modo di pensare quotidiano?’, non ‘salite questa rampa di scale e la cultura si rivelerà a voi’. Da questo punto di vista, in Germania eravamo dieci anni indietro”.
Quando il 23 giugno 2016 il Regno Unito ha votato per uscire dall’Ue, l’esito del referendum ha sconvolto molti europei che avevano scelto quel paese come patria d’adozione. In molti sono tornati nei loro paesi di origine. Tuttavia, è sempre più chiaro che le esperienze che queste persone hanno maturato stanno cambiando le città dell’Europa continentale in modi inattesi.
Pubblico e privato
In Germania la cosa è vera in particolar modo per il settore dell’arte e dei musei, per decenni un obiettivo ambito dai laureati di un paese che da decennti conta più storici dell’arte ed esperti di quelli a cui può offrire un lavoro. Il British museum, il V&A e la Tate Liverpool hanno, o hanno avuto, tutti direttori con passaporto tedesco.
Stefan Kalmár, 52 anni, ha vissuto diciassette anni nel Regno Unito dopo essere passato dall’università di Hildesheim alla Goldsmiths nel 1996. Ha diretto poi l’Istituto di cultura visiva di Cambridge e, nella capitale britannica, la galleria Cubitt e il prestigioso Institute of contemporary arts (Ica). Kalmár ricorda un’età dell’oro tra la metà degli anni novanta e i primi anni duemila, quando “Londra stava diventando la New York europea. Ha totalmente plasmato la mia idea di cultura”.
Ma il referendum ha segnato una svolta anche per lui, figlio di madre tedesca dell’est e padre ungherese. “In realtà le cose erano cambiate già prima”. Nella Londra globalizzata, ricorda, i colleghi facevano commenti sprezzanti sugli “stranieri”. Dopo il referendum questo clima conflittuale si è amplificato e gli ha tolto l’entusiasmo per il suo lavoro, spiega Kalmár. Un esempio: l’Ica è finanziato solo per il 21 per cento da fondi pubblici – rispetto al settanta o all’ottanta per cento di istituzioni tedesche simili – eppure la sua sede multidisciplinare era percepita come finanziata dal governo, e un programma provocatorio poteva scatenare furiose lettere di protesta della destra.
La mancanza di una cultura dei donatori privati come quella statunitense e di un equivalente regime di agevolazioni fiscali, secondo lui, fanno sì che le organizzazioni artistiche britanniche “abbiano preso il peggio dei due mondi. Il modello misto ti costringe a essere molto più commerciale di quanto vorresti: passi tutto il tempo a pensare a come fare più soldi con la tua libreria o il tuo caffè, e questo finisce per prosciugare molte energie che vorresti invece investire nel programma artistico”.
Ora che vive a Marsiglia, dove dirige un ufficio di produzione curatoriale, Kalmár ha cominciato a rivalutare il modo in cui Francia e Germania si occupano di arte, soprattutto pensando alla rapidità e alla semplicità con cui i due paesi hanno sostenuto le istituzioni culturali durante la pandemia, a fronte delle difficoltà delle organizzazioni britanniche.
“È un approccio diverso da quello che noi consideriamo servizio pubblico. Un museo tedesco può permettersi di chiudere per quattro settimane per allestire una nuova mostra, una cosa assolutamente impensabile nel Regno Unito”.
Prendere il meglio
Comunque molti direttori e curatori tedeschi che si sono formati nell’ambiente britannico, più commerciale ma anche più attento al pubblico, hanno un giudizio ambivalente. “L’idea in Germania è che una mostra che non attira molti spettatori può essere comunque preziosa”, dice Rosenthal, che lascerà Berlino in autunno per dirigere il Guggenheim di Abu Dhabi. “La cultura è vista come uno strumento importante per il pensiero critico. Ma a Londra ho imparato che una mostra di successo non è necessariamente poco interessante artisticamente”.
Anna Gritz arrivò a Londra nel 2002, in Erasmus, per poi tornarci anni dopo come curatrice, alla Hayward e alla South London gallery. Ora dirige la Haus am Waldsee, un centro d’arte nel quartiere berlinese di Zehlendorf, costruito nello stile di una casa di campagna inglese. “Nel Regno Unito ho imparato che arte non è solo ciò che avviene nelle sale espositive”, ha detto Gritz. “Può essere arte anche quello che una galleria fa con la comunità del suo quartiere”.
I programmi di sensibilizzazione, pensati per portare nelle gallerie persone di ogni contesto sociale, sono ancora una novità in Germania. Il Southbank centre, racconta Rosenthal, aveva un dipartimento di trenta persone che lavoravano solo su questo. Al Gropius Bau è stata lei a creare delle attività di sensibilizzazione, che prima non c’erano.
Alla Haus am Waldsee, Gritz spiega che uno dei prossimi passi sarà assumere un curatore esterno per la sensibilizzazione e che è importante coinvolgere bambini e giovani in una galleria che ha nei pensionati il suo pubblico più fedele. “Non ho lasciato Londra per la Brexit”, chiarisce. “Anche se ripensandoci, forse c’entra più di quanto io stessa non pensavo. Eppure mi piaceva essere straniera”, aggiunge. “A volte mi manca”. ◆ ff
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Questo articolo è uscito sul numero 1465 di Internazionale, a pagina 82. Compra questo numero | Abbonati