D efinire “sottovalutata” un’artista leggendaria come Joni Mitchell potrebbe sembrare assurdo, eppure l’anno scorso Jann Wenner, uno dei fondatori della rivista Rolling Stone, aveva deciso di non includere né lei né altre donne in un libro sulla storia del rock intitolato The masters. Difendendo la sua scelta d’intervistare solo musicisti uomini e bianchi, Wenner aveva dichiarato al New York Times che Mitchell non era una “filosofa del rock”. Il commento era apparso tanto sconcertante (in seguito Wenner si è scusato) quanto significativo, perché evidenziava per l’ennesima volta i preconcetti che animano gli onnipotenti custodi della musica.
I Grammy di quest’anno, però, dovrebbero aver risolto la questione. La cantautrice si è esibita in quello che potrebbe passare alla storia come uno dei set più indimenticabili di una cerimonia di premiazione. L’esibizione ha chiarito che Mitchell è la filosofa per eccellenza di un’intera generazione di musicisti, non solo rock.
Fare il bagno nude
L’elemento prevalente della serata è stato chiaramente il genere. A vincere i premi più prestigiosi, infatti, sono state quattro donne: Taylor Swift ha portato a casa, per la quarta volta (in assoluto la prima artista a riuscirci), il riconoscimento per l’album dell’anno (Midnights), Miley Cyrus è stata premiata per la registrazione dell’anno (Flowers), Billie Eilish ha vinto per la canzone dell’anno (What was I made for?, scritta insieme al fratello Finneas O’Connell) mentre la musicista rnb Victoria Monét è stata nominata miglior artista emergente.
A sei anni di distanza da quando l’ex presidente della Recording Academy aveva dichiarato che per vincere più Grammy le donne dovevano “darsi una mossa”, la quantità di talento femminile in mostra è stata sovrastante. Ed è emerso un impulso estetico più profondo, troppo profondo per parlare di semplice tendenza: una scrittura musicale che diventa narrativa precisa ed emotiva.
Presentando Mitchell, la cantante folk Brandi Carlile l’ha definita una delle creatrici più influenti “nella storia dell’umanità”, capace di “ridefinire lo scopo di una canzone”. Mentre i cantautori che l’avevano preceduta si concentravano su testi fatti di semplici osservazioni, Mitchell ha reso popolare l’idea di “mostrare la propria interiorità al mondo” (per rafforzare la sua argomentazione, Carlile ha dichiarato che Mitchell è come la prima persona che a una festa decide di spogliarsi e fare il bagno nuda). Quando si parla di una forma d’arte antica come la musica è sempre difficile attribuire il titolo di “pioniere”, ma l’affermazione di Carlile è stata consolidata dalla performance successiva.
Mitchell non si era mai esibita ai Grammy e, dopo che nel 2015 aveva avuto un aneurisma, c’era il rischio che non l’avrebbe più fatto. Poi negli ultimi due anni è tornata a suonare in pubblico con l’aiuto di Carlile e di altri musicisti. La prima esibizione dopo il ritorno è documentata nell’album Joni Mitchell at Newport, che ha vinto il premio per il miglior disco folk dell’anno. La registrazione ha trasformato i maggiori successi di Mitchell in arazzi vocali collaborativi in cui la voce della cantautrice è solo uno dei fili.
Durante la cerimonia, il 4 febbraio, Mitchell, ottant’anni, si è seduta sul palco al centro di un cerchio composto, tra gli altri, da SistaStrings, Allison Russell, Blake Mills, Jacob Collier, Lucius e Carlile. Ma tutta l’attenzione era per lei. Adagiata su una poltrona dal decoro raffinato che all’inizio dell’esibizione ha ruotato verso la platea, Mitchell indossava una camicia nera decorata da stelle e teneva in mano un bastone. Aveva l’aria di una maga: gentile, impressionante e saggia. Ma nel suo aspetto c’era anche una certa vulnerabilità. A questo punto della sua carriera Mitchell non avrebbe bisogno di esporsi al giudizio del pubblico, eppure ha deciso di farlo. Ha cantato Both sides, now, indimenticabile traccia finale del suo album Clouds, del 1969. La canzone riflette sul tempo e l’esperienza che modificano i punti di vista di una persona, tema ancora importante decenni dopo che è stato scritto il testo. La genialità di Both sides, now risiede in parte nella sua cadenza tortuosa, nella sensazione che proceda avanti e indietro mentre Mitchell affronta dialetticamente gli aspetti più faticosi dell’esistenza umana. L’altra sera la sua esecuzione è stata così calma che a tratti ha sfiorato il parlato, abbandonando il canto. I gesti delle sue mani erano quelli di qualcuno che sta spiegando qualcosa, ed era proprio così: spiegava la sua ignoranza. Quando ha cantato “I really don’t know life at all” (“non so nulla della vita”), Mitchell è sembrata davvero sperduta.
Le lacrime dei titani
L’esibizione ha avuto il classico effetto che Both sides, now ha sempre sull’ascoltatore: rallentare il flusso del tempo fino quasi a fermarlo. Parte della forza dell’esecuzione l’ha data il contributo degli altri musicisti presenti in sala. Le telecamere hanno inquadrato Beyoncé, Olivia Rodrigo e altre figure titaniche della musica recente, tutte sull’orlo delle lacrime. Stavano assorbendo la potenza della canzone e del dramma umano in scena, e probabilmente riflettevano anche sul loro ruolo in una lunga tradizione.
Sostenere che viviamo in un’epoca di scrittura musicale narrativa può sembrare banale, ma è innegabile che oggi i testi siano più importanti che mai per il pubblico. Rodrigo, Swift, SZA, Lana Del Rey e boygenius – tutte candidate per l’album dell’anno – popolano le loro canzoni di scene, confessioni e parole ricche di stratificazioni. In generale queste artiste raccontano come la loro vita interiore si scontra con un mondo, una società, pieni di personaggi che hanno a loro volta la propria interiorità. Mitchell è più complessa nel suo talento musicale rispetto ad alcune discendenti, ma la sua abilità di controllare la suspence attraverso impennate melodiche e sottigliezze derivate dal jazz è stata chiaramente tramandata alle generazioni successive. Per capirlo basta fare caso alla suggestiva esibizione di Billie Eilish.
I segni di questo lignaggio sono apparsi evidenti anche in altri momenti, soprattutto quando la cantante folk Tracy Chapman è salita sul palco dopo anni di rarissime apparizioni in pubblico. Chapman ha duettato con Luke Combs, che di recente ha riportato alla ribalta Fast car, del 1988. Adattati per due voci complementari – quella fluida di Chapman e quella ruvida di Combs – i versi di Fast car dipingono scene di desiderio e fuga, di personaggi decisi a svelare le loro pulsioni al mondo. La storia raccontata dalla canzone, in qualche modo, è sembrata un manifesto della filosofia del rock. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1549 di Internazionale, a pagina 78. Compra questo numero | Abbonati