Beyoncé pensa alla fine degli Stati Uniti. Il suo album Cowboy Carter si apre con Ameriican requiem, in cui racconta di aver seppellito “grandi idee”, abbandonato “amici inaffidabili” e “una bella casa in cui non ci siamo mai davvero stabiliti”. È un requiem per il paese? Per la sua personale americanità? O forse ci sta solo raccontando la storia più americana di tutte, quella di chi sopravvive reinventandosi continuamente?
La musica del disco suggerisce una risposta. Quando il singolo Texas hold ’em, carico di melodie di banjo, ha debuttato in cima alla classifica country di Billboard, a febbraio, gli ascoltatori hanno ipotizzato che l’ottavo album avrebbe avuto sonorità da square dance. Ma in realtà Ameriican requiem è qualcos’altro: una tempesta solare di funk psichedelico che ribolle di sitar, chitarre, urla e ruggiti. Lavorando con studiosi della musica americana come Jon Batiste e Raphael Saadiq, Beyoncé ha mescolato Sly Stone, Prince ed Erykah Badu, futuristi la cui musica viaggiava nel cosmo in cerca di una liberazione che nel loro paese era introvabile.
Problema di etichetta
Country. Non possiamo girare troppo intorno a questa parola. Poche discussioni sono più noiose di quelle sui generi musicali, che possono riferirsi intercambiabilmente alla musicologia, al marketing o alla demografia, quasi sempre senza essere davvero definibili. Considerare il country come un’etichetta scientifica significa fraintendere il significato di Cowboy Carter. Beyoncé non sta cercando di rivendicare un territorio conteso, ma si limita a mostrarci ciò che è possibile all’interno dei confini che tutti noi condividiamo.
Certo, il country ha una grande influenza sull’album. Brevemente (forse troppo) Cowboy Carter mette in risalto un’eredità creativa rurale afroamericana con riferimenti ad artisti come Sister Rosetta Tharpe e contributi vocali di musicisti emergenti come Tanner Adell. Con toni sempre più infervorati, Beyoncé promette di difendere la sua famiglia, prima in un’ode alla maternità (Protector), poi in un inno rock da strada (Bodyguard) e infine in una stravolta rivisitazione delle murder ballad degli Appalachi (Daughter). Ma solo un brano, Levii’s jeans, sembra il prodotto della macchina musicale moderna di Nashville. Questo perché, come molte canzoni di Morgan Wallen, il brano avvolge in un tessuto di jeans l’rnb caldo e sensuale di cui Beyoncé è una specialista. La cantante ha perfino coinvolto il rapper bianco Post Malone chiedendogli d’interpretare un verso molto in stile Wallen. Se Levii’s jeans diventerà la hit che dovrebbe essere, Beyoncé avrà inviato il suo messaggio – “posso fare anche questo” – in modo deliziosamente ironico.
In realtà il grande desiderio di Beyoncé è quello d’improvvisare sulla parola country (nel senso di paese), esattamente come ha fatto con il termine house (casa) nel suo capolavoro dance del 2022 Renaissance. Un paese, come una casa, è un posto dove la gente vive. Un paese ha le sue tradizioni, e il tradizionalismo americano (insieme alla territorialità che determina a chi è consentito seguire una tradizione o l’altra) si sta riaffermando politicamente e culturalmente. Beyoncé risponde con un mito nazionale alternativo, quello degli Stati Uniti come melting pot culturale, focolaio d’innovazione in cui il futuro è più interessante del passato.
Basta ascoltare Riiverdance. Il titolo allude all’intenzione di Beyoncé d’irrompere in uno stile musicale comunemente riferito ai bianchi. Il brano comincia con un riff pulito e pizzicato. Poi Beyoncé con un semplice comando, “Dance”, sfocia nell’hip-house. Se si trattasse solo di un esperimento di collisione tra i suoni sarebbe comunque un successo, ma la traccia è anche una splendida ballata d’amore, di conflitto e rappacificazione. La storia e il ballo che ispira potrebbero andare avanti per sempre. Ma Cowboy Carter ha molto altro da raccontare.
Ventisette canzoni in 78 minuti. L’abbondanza di Cowboy Carter ha un significato preciso. Con Renaissance, Beyoncé aveva annunciato di voler abbandonare il “perfezionismo e l’ossessività” per rincorrere il brivido dell’eccesso e della sperimentazione. In questo modo suggeriva una risposta a una domanda difficile: qual è il ruolo di un album nell’epoca dello streaming? Su Spotify e TikTok le canzoni e i frammenti di canzoni viaggiano senza nessun collegamento con il loro contesto, rivolgendosi a un pubblico sempre meno attento. Per rispondere a questo fenomeno molti artisti moltiplicano i contenuti. Le canzoni diventano più brevi, ma gli album si allungano e perdono coerenza.
Attenzione ai dettagli
Cowboy Carter dichiara che è possibile allargarsi mantenendo la sostanza. Scorre senza ostacoli, sviluppando con attenzione temi e umori tra interludi brevi e affascinanti. Provoca senza essere mai violento. Potete ascoltare la commossa prima suite di brani mentre preparate la cena, riservando la geniale parte finale (un intuitivo turbinio di musica dance) per le ore piccole. Nel complesso, la produzione ha una forza sconquassante. Beyoncé, Barbie, Dune e l’universo multimediale di Taylor Swift insegnano la stessa lezione: per superare l’eccessiva saturazione culturale bisogna fare le cose in grande senza perdere l’attenzione per i dettagli.
Con una lunghezza simile, le indulgenze e i passi falsi hanno un effetto stridente. Alcune frasi di Cowboy Carter sono poco riuscite (come in Daughter), mentre alcune canzoni, per esempio la cover di Blackbird dei Beatles, sembrano esistere soprattutto per ragioni concettuali. Molti testi ripropongono vecchi tropi della carriera di Beyoncé (la celebrazione del suo successo come qualcosa d’intrinsecamente importante e giusto) aggiungendo nuove metafore sul whisky e i cavalli. Mi fa piacere che in questa era di composizioni iperletterali e iperpersonali Beyoncé sia ancora interessata alla musica come forma d’arte viscerale. Al contempo, però, è un peccato che la sua incursione nel country (musica famosa per la capacità di raccontare storie) non contenga una quantità adeguata d’intrigo e rivelazione.
Cowboy Carter non è l’album di protesta radicale che alcuni ascoltatori chiedono da quando l’artista si è presentata al Super Bowl del 2016 con uno stile ispirato alle Black panthers. Se Beyoncé ha voluto criticare la nazione di cui sventola la bandiera in copertina, lo ha fatto in modo vago. Ma Beyoncé è grande proprio grazie alla sua fede nell’idea che il suono basti a lanciare un messaggio e magari a portare un cambiamento. Nell’ultimo brano, Amen, torna il tema di Ameriican requiem: edifici costruiti sul sangue, bugie che crollano. La voce di Beyoncé è piena di orgoglio, forse perché viviamo in un paese in cui gli artisti hanno ancora il coraggio di puntare in alto. ◆ as
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Questo articolo è uscito sul numero 1558 di Internazionale, a pagina 83. Compra questo numero | Abbonati